Alain Finkielkraut è improvvisamente divenuto noto al grande pubblico sabato 16 febbraio quando, riconosciuto da un manipolo di manifestanti, è stato duramente contestato soltanto perché ebreo ed ha rischiato il linciaggio. I suoi aggressori, probabilmente infiltrati nei gilet jaunes, o proprio da appartenenti al movimento con connotazioni estremiste ed antisemite, sarebbero, secondo le indagini, islamisti salafiti che hanno colto l’occasione per riversare il loro odio contro il filosofo.
I suoi minacciosi contestatori, contro i quali non ha sporto denuncia, certamente non avevano mai letto una riga dei molti libri e dei numerosissimi articoli pubblicati da Finkielkraut che è oggi uno dei più influenti intellettuali francesi con inclinazioni conservatrici.
Nei giorni scorsi, in una conversazione con Repubblica (20 febbraio), Finkielkraut ha detto che l’antisemitismo sta diventando una vera e propria piaga in Francia: “Gli ebrei sono il primo bersaglio di una convergenza delle lotte tra la sinistra radicale antisionista e giovani di banlieue vicini all’islamismo”. Ed ha aggiunto che non vede contraddizione nel criticare la politica di Israele senza essere accusati di essere antisemiti o antisionisti. “Anche io critico – ha ammesso – la decisione di aumentare le nuove colonie in Cisgiordania. Il problema è l’ostilità dichiarata verso una nazione. L’anticomunismo non voleva cancellare la Russia. I nuovi antisemiti associano la stella di David alla svastica. Quindi è inutile ricordare la Shoah perché loro risponderanno: è ciò che Israele fa con i palestinesi. E dal punto di vista giudiziario siamo impotenti”.
A proposito del populismo in Europa, Finkielkraut ritiene “che bisogna rispettare la libertà e la saggezza dei popoli europei quando rifiutano di aderire a una visione multiculturale della società. Liquidare l’attuale governo italiano con il termine ‘lebbra nazionalista’ è stato un grave errore di Macron”. Quanto ai gilet jaunes, rivendica il sostegno iniziale che ha dato al movimento: “Grazie alla casacca fluorescente è diventata visibile la Francia rurale, delle periferie lontane. Sono i perdenti della globalizzazione e dello Stato sociale. Purtroppo il movimento è stato corrotto dal successo mediatico. Alcuni esponenti si sono montati la testa, diventando arroganti. Quel che mi allontana oggi dal movimento non è l’antisemitismo, che è marginale, ma un egualitarismo pericoloso, in cui uno vale uno, l’intelligenza e le competenze non vengono più rispettate”.
Nato a Parigi il 30 giugno 1949 da una famiglia di ebrei polacchi scampati alla Shoah (i suoi genitori erano sopravvissuti alla deportazione ad Auschwitz), è stato allievo della Ėcole normale supérieure laureandosi in filosofia. Influenzato soprattutto da Hannah Arendt, Martin Heidegger, Emmanuel Lévinas, Vladimir Jankélévitch il suo pensiero punta all demolizione del relativismo e alla messa sotto accusa delle distorsioni generate dalla globalizzazione culturale. In molte delle sue opere tradotte in Italia Finkielkraut rivela una sensibilità non comune per il problema dell’identità e dell’appartenenza. In particolare: La sconfitta del pensiero, L’umanità perduta. Saggio sul XX secolo, Nel nome dell’Altro, Noi, i moderni, L’identità infelice. Una citazione a parte merita il saggio Le Mécontemporain, Charles Péguy, lecteur du monde moderne, (L’Incontemporaneo, Lindau), una vera riabilitazione di Charles Péguy, scrittore e poeta di destra, dell’inizio del secolo scorso, appartenente alla “famiglia” dei Bernanos, Barrès, Maurras, che ha tratto dalle ombre dell’oblio. Nel 1994, è stato insignito dell Legion d’onore e il 10 aprile 2014 è stato nominato membro dell’Accademia di Francia.
La riflessione di Finkielkraut è un duro atto d’accusa al presente che lui vede come il momento della decomposizione di una civiltà minacciata dall’esterno e dalla interna debolezza a riconoscersi per ciò che è stata.
ECLISSI DEL PENSIERO E DECADENZA
La nostra epoca è caratterizzata dall’eclissi del pensiero e dalla decadenza della cultura. Due costanti che nel Ventesimo secolo sono state evidenti non soltanto alle élites intellettuali. Esse, peraltro, si erano manifestate fin da quando i Lumi imposero il loro dominio nel nome della Ragione, la cui pretesa era quella di spazzare via lo “spirito del popolo” soppiantandolo con le costruzioni astratte del positivismo e del relativismo. Il Novecento è stato il trionfo della destrutturazione dell’anima: la decadenza della civiltà occidentale affonda le radici in questo humus arato dalle filosofie minimaliste che hanno deificato l’inessenziale ed il provvisorio decretando la scomposizione dell’unità metafisica che aveva segnato il cammino dell’uomo verso la conquista di un equilibrio consapevole con la natura, la libertà, l’autorità. Oswald Spengler e Martin Heidegger alla crisi del pensiero come strumento di conoscenza interiore, oltre che di speculazione, hanno dedicato i loro sforzi maggiori, ma inascoltate sono rimaste le diagnosi sul “tramonto” occidentale, non meno che sulla “nullificazione” dell’Essere. Possiamo soltanto rimpiangere il tempo perduto a rincorrere chimere che avrebbero dovuto soddisfare i nostri istinti primordiali, incuranti che quand’anche fosse accaduto sarebbe rimasto in noi il vuoto che lamentiamo e che nel disperato grido di Friedrich Nietzsche abbiamo colto come un avvertimento all’ultimo uomo sulla soglia del nichilismo appagante le nature deboli, quelle che abitano l’universo impalpabile dove le trasformazioni del vitalismo danno luogo ad esistenze randagie, inclini a farsi possedere da mode, costumi sconnessi, morbidi richiami a provvidenze ingannevoli. Ciò che popola il nostro tempo, insomma.
Non so se Alain Finkielkraut licenziando La sconfitta del pensiero, immaginava che la sua descrizione della decadenza culturale sarebbe stata superata dagli eventi e si sarebbe aggravata al punto di temere l’acuirsi della frattura tra le ragioni dell’essere ed il sentimento dell’abbandono. E’ probabile, comunque. Anche perché nel frattempo il filosofo francese, non diversamente da altri pensatori della sua stessa generazione, ha continuato a produrre idee in linea con quelle esposte in questo saggio. Ne sono esempi Noi, i moderni e, tra gli ultimi, L’identità infelice, mentre da poco in Francia è stata pubblicata una raccolta di suoi interventi perlopiù giornalistici che rimandano alle opere citate.
Il dirompente discorso sull’identità ripropone quello più complessivo sulla decadenza. Anzi ne è la conclusione più efficace sotto il profilo della mutazione antropologica della Francia e dell’Europa.
La riflessione sulla decadenza delle società occidentali, sostiene Finkielkraut è da ascrivere alla crisi del pensiero e della cultura. Anzi, al fatto, così caratterizzante, che la cultura sia divenuta oggetto di consumo e sostanzialmente “relativizzata”, nel senso che nel suo ambito tutto è cultura perché niente è assolutamente ed in maniera esclusiva “cultura”.
CRITICA AL CONSUMISMO
Nell’universo consumistico non c’è spazio per l’essenza dell’agire umano; l’essere si ritrae non vergognoso, ma disgustato; l’appiattimento è la morale prevalente; la sola ascesi consentita è l’happy end desiderabile come una fuga dalla confortevole prigione che ci siamo costruiti. E nulla è più appagante che tuffarsi nelle voluttà del “pensiero unico” dove si annidano le piccole ambizioni che corrispondono ai modelli della pubblicità e ai linguaggi imposti attraverso televisione, internet, svaghi capaci di colmare il vuoto che altrimenti ucciderebbe l’homo consumans.
La cultura, insomma, è un grande magazzino nel quale, dall’Illuminismo in poi, come spiega Finkielkraut ripercorrendo la storia delle contraddizioni del pensiero europeo, si trova di tutto e dove ognuno può cercare ciò che più gli piace. La barbarie, dunque, s’è imposta secondo quella linea di pensiero, una sorta di strategia della demolizione. Perché ognuno si senta più libero, naturalmente; perché non ci siano più condizionamenti, è ovvio; perché la speranza di vivere in sintonia con le proprie tradizioni, le proprie storie, le vecchie care abitudini venga inesorabilmente spazzata via. Sicché tutte le opere dello spirito vengono sommerse dalla subcultura e Aristotele vale quanto un concerto rock, Shakespeare un paio di stivali firmati, una cattedrale gotica sta sullo stesso piano di una chiesa in cemento armato che assomiglia ad una stazione ferroviaria. La prostituzione del pensiero, dunque, dopo la demolizione e la dissacrazione della conoscenza. Cultura e subcultura si tengono per mano. E poco importa che le differenze tra culture siano riconoscibili: resta il pregiudizio per cui anche nell’ambito delle culture “altre”, non europee o occidentali, non è dignitoso scegliere, valutare, respingere. Un concerto di musica maliana, dominato da uno strumento ancestrale come la kora, dove i griot, vecchi cantastorie dell’impero mandingo, ripropongono un mondo tradizionale, un approccio culturale che un antropologo come Frobenius avrebbe salutato quale indice di vitalità di un popolo, non vale niente di fronte ad un paio di jeans firmati o a semplicistiche canzonette che se ne vanno nel vento. Nella migliore delle ipotesi, il tutto sta sullo stesso piano.
I NUOVI PADONI DEL PENSIERO
Non senza ragione e con molta amarezza Finkielkraut osserva che “la parola d’ordine di questo nuovo edonismo, che rifiuta sia la nostalgia che l’autocritica, è scoppiare”, nel senso che i suoi “apostoli”, i liberatori insomma – intellettuali, costruttori di mode, anchormen, ecc. – da veri “padroni del pensiero” della modernità, non vogliono una società regolata secondo il diritto naturale o quantomeno rispondente a canoni di civile ed accettabile convivenza, ma ad una “società polimorfa”, perciò essi non raccomandano “tanto il diritto alla differenza quanto l’ibridismo generalizzato, il diritto di ognuno alla specificità dell’altro. Secondo loro, multiculturale significa ben fornito; non sono le culture in quanto tali che essi apprezzano ma la loro versione edulcorata, la parte di esse che si può sottoporre ad un test, assaporare e gettare dopo averne fatto uso. Consumatori e non conservatori delle tradizioni esistenti, sono i clienti-re che scalpitano davanti agli impedimenti che ideologie vetuste e rigide frappongono alla realizzazione del regno della diversità”.
Malinconica diagnosi; tristissima descrizione di una condizione che non ammette repliche. Finkielkraut neppure si lascia sedurre dalle possibilità, per quanto remote, di una rinascita. E del resto, come potrebbe? Noi tutti siamo figli delle contraddizioni di due secoli, amorevolmente coltivate, immensamente desiderate: il risultato non poteva essere più umiliante: “Un fumetto che combini un intrigo palpitante con delle belle immagini, vale un romanzo di Nabokov, ciò che leggono le lolite vale Lolita; uno slogan pubblicitario efficace vale una poesia di Apollinaire o di Francis Ponge; un ritmo di rock vale una melodia di Duke Ellington; una bella partita di calcio vale un balletto di Pina Baush; un grande sarto vale Manet, Picasso, Michelangelo; l’opera di oggi – quella della vita, del clip, del jingle, dello spot – vale largamente Verdi o Wagner. Il calciatore e il coreografo, il pittore e il sarto, lo scrittore e il concettualista, il musicista e il suonatore di rock sono, allo stesso titolo, dei creatori”. Come si fa a mettere le idee a posto?
Su questo interrogativo si chiude la riflessione di Finkielkraut sulla “sconfitta del pensiero” che si propone di denunciare “l’industria dello svago, questa creazione dell’età della tecnica, che riduce le opere dello spirito allo stato di cianfrusaglia”. È la vita dell’ultimo uomo: Nietzsche aveva tragicamente visto giusto.
GUERRA AL CONFORMISMO
Ma è nel volume Noi, i moderni che Finkielkraut, formula una vera e propria dichiarazione di guerra al conformismo contemporaneo. Come scrisse Marina Valensise sul Foglio, all’uscita del libro in Italia nel 2005, esso “è un viaggio nel mondo d’oggi e nelle sue insidie, compiuto da un metafisico dotato di modestia, che senza pretese di solennità si diverte a inanellare citazioni di Jules Michelet e brani di Clausewitz, a mettere insieme Goethe e Arthur Koestler per stimolare un corto circuito di idee quando avvicina la nostalgia proustiana di Roland Barthes, guru pentito del radicalismo anni ’70, alla «bontà delle piccole cose» descritta da Vassilij Grossman, un altro scrittore ebreo vittima del totalitarismo”.
La modernità non solo ha accerchiato le trincee dello spirito, ma minaccia le esistenze dei popoli. Da qui il grande tema dell’identità che ci tiene in apprensione al quale Finkielkraut ha dedicato le sue energie da alcuni anni a questa parte consapevole che rispetto ad esso le piccole culture e la piccolissima politica, in questa parte di mondo, rischiano di scomparire miseramente cullate dal piacere dell’irrilevanza, come se una glaciazione prossima ventura avesse già decretato la fine dell’umanità. I “buoni europei” si sono addormentati tra le braccia di un destino più crudele di quanto appaia.
“L’immigrazione – scrive Finkielkraut ne L’identità infelice – che contribuisce e contribuirà sempre più alla crescita demografica del Vecchio Mondo, pone le nazioni europee e l’Europa stessa di fronte alla questione della propria identità. Siamo individui spontaneamente cosmopoliti che ora, a causa dello shock dell’alterità, scoprono il loro essere. Scoperta preziosa, ma anche pericolosa: dobbiamo combattere a tutti i costi la tentazione etnocentrica di perseguire le differenze e di erigerci a modello ideale, senza per questo soccombere alla tentazione penitenziale di rinnegare noi stessi per espiare le nostre colpe. La buona coscienza ci è preclusa, ma ci sono dei limiti anche alla cattiva coscienza. La nostra eredità, che non fa certo di noi degli esseri superiori, merita di essere preservata, nutrita e trasmessa tanto agli autoctoni quanto ai nuovi arrivati. Resta da capire, in un mondo che sostituisce l’arte di leggere con l’interconnessione permanente e che stigmatizza l’elitarismo culturale in nome dell’uguaglianza, se c’è ancora qualcosa da ereditare e trasmettere”.
GLI EUROPEI NON SANNO PIÙ CHI SONO
La crisi della convivenza è diventata una tragedia. Gli europei non sanno più chi sono ed i nuovi arrivati perdono a loro volta l’identità che si sono portati dietro. Un continente brulicante nullità culturali va dispiegando la propria impotenza all’insegna del relativismo. Senza il riconoscimento dell’eredità non c’è futuro. Per nessuno. E se la visione di un’Europa senza destino è già nitida ai più, quella di un’Europa disarticolata dalla reinvenzione del colonialismo alla rovescia colpevolmente viene trascurata, quasi appartenesse ad un universo fantascientifico. Perciò se è doveroso opporsi all’etnocentrismo europeo nel tempo dell’interconnessione totale, è altrettanto doveroso rifiutare il ripiego, l”astinenza identitaria, il cosmopolitismo a tutti i costi, il minimalismo culturale in nome di un buonismo che non potrebbe portare ad altro se non alla sparizione dell’Europa stessa.
Dalla “sconfitta del pensiero” alla “sconfitta delle identità”, come si capisce, il passo è assai breve. Quello ulteriore conduce nel baratro.
(Foto: Creative commons)