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Iran, perché si è dimesso il ministro degli Esteri, l’uomo dell’accordo sul nucleare

zarif

Ieri, con un post su Instagram, il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, ha annunciato le sue dimissioni. È stata un’uscita inaspettata, da parte di colui che è considerato uno dei più potenti interpreti del pensiero moderato (con accezione del termine da contestualizzare in Iran, dove un teocrazia ultra-conservatrice sciita governa il paese) del presidente Hassan Rouhani.

Zarif, per esempio, fu l’uomo che per Teheran negoziò l’accordo sul congelamento del programma nucleare – il Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa) come da terminologia tecnica, giornalisticamente semplificato anche in Nuke Deal – lavorando fianco a fianco con Cina e Russia, ma soprattutto con i co-firmatari occidentali dell’accordo, su tutti l’ex segretario di Stato americano di epoca obamiana John Kerry.

Dopo che il presidente Donald Trump ha deciso di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo – era il maggio scorso – Zarif è finito sotto le dure critiche dell’ala più conservatrice del sistema politico iraniano, accusato di aver aperto e fatto da sponda agli americani durante il suo lavoro con l’amministrazione precedente: una debolezza secondo i conservatori, che ha poi portato al tradimento di Washington. “Non a caso già ieri sera sono arrivati i primi tweet di giubilo degli ultraconservatori iraniani, dove l’ormai ex ministro degli esteri viene definito uno Yankee”, ci fa notare Jacopo Scita, al-Sabah doctoral alla Durham University.

“Zarif aveva costantemente difeso (sia dagli attacchi interni, che dalle crescenti pressioni dell’amministrazione Trump) l’adesione di Teheran all’accordo, chiedendo a gran voce un maggior impegno europeo nel garantire respiro all’economia iraniana”, spiega Scita, che poi sottolinea che in questo senso “è abbastanza sorprendente” che le dimissioni di Zarif arrivino a neanche un mese dall’introduzione dell’Instex, il nuovo veicolo di pagamento europeo che dovrebbe permettere di superare parte delle sanzioni secondarie americane, e a pochi giorni dal report dell’agenzia per il nucleare dell’Onu, la Iaea, che conferma per la 14esima volta consecutiva il rispetto dell’accordo da parte dell’Iran.

Ex ambasciatore all’Onu, Zarif ha una formazione occidentale (ha un dottorato all’Università di Denver) e dal 2013 Rouhani l’ha scelto per guidare la diplomazia dell’Iran, secondo una visione più dialogante del paese che il presidente cerca faticosamente di interpretare; il ministro è diventato via via il volto sorridente del nuovo impegno che Teheran vorrebbe prendere con il mondo, e che però viene spesso alterato dalle manovre degli interpreti delle posizioni teocratica e della linea dura.

E il lavoro che Zarif ha fatto sul Deal e sta facendo per salvarlo dopo l’uscita americana, è un perfetto paradigma: anche per questa simmetria sulla linea, non è ancora chiaro se il presidente Rouhani accetterà le dimissioni del suo uomo (più) forte Zarif – possibile che il presidente le rifiuti, e il ministro torni sui suoi passi. L’annuncio di ieri, continua il ricercatore italiano, “conferma quanto la visione di politica estera del governo Rouhani fosse sotto grande pressione domestica. Tuttavia sia l’Instex che continuo rispetto di Tehran del Deal sono elementi positivi e, nonostante le dimissioni di Zarif, nel breve periodo possono mantenere in piedi l’impalcatura, sempre più precaria, che sorregge il Jcpoa”.

Circolano ricostruzioni secondo cui il ministro si sarebbe dimesso in disaccordo con la Guida Suprema, Ali Khamenei (il leader assoluto delle posizioni che lo contestano), il quale lo ha escluso dalla delegazione che ha incontrato il rais siriano Bashar el Assad, nella sua prima visita nel paese dall’inizio della guerra – che l’Iran ha combattuto al fianco del regime di Damasco, con un alto costo economico e politico, coinvolgendo attori esterni (mossi da interessi e ideologia) come le milizia sciite libanesi Hezbollah.

Le dimissioni di Zarif sono una tattica? Una mossa per spiazzare i conservatori? Oppure sono l’inizio di una politica estera più dura a cui il presidente Rouhani deve piegarsi per accontentare i falchi della teocrazia (posizioni, quelle più intransigenti, che hanno preso più spazio anche grazie alle politiche aggressive con cui Trump ha ingaggiato uno scontro regionale contro l’Iran, fianco a fianco con i partner dell’area, come Arabia Saudita e Israele)?

“Zarif è una figura molto popolare sia tra gli iraniani che tra i diplomatici esteri, soprattutto quelli europei. Dal punto di vista dell’accordo sul nucleare, le sue dimissioni sono, in un certo senso, un regalo straordinario per Trump. Paradossalmente, da qui in avanti Washington troverà a Tehran molti più interlocutori interessati a smantellare il Jcpoa, le cui voci cresceranno in intensità e peso politico una volta venuto meno il parafulmine Zarif”, aggiunge Scita.

Val la pena ricordare che le prossime elezioni presidenziali iraniane sono previste per il 2021, circa sei mesi dopo quelle americane. Dunque, la partita a scacchi su cui si sta giocando il futuro del Jcpoa – un dossier enorme, che rappresenta il futuro dell’Iran – è ancora molto complessa: “Tuttavia, con le dimissioni di Zarif l’Iran sembra aver perso la propria regina”.

L’uscita, però, potrebbe permette a Zarif di costruirsi un ruolo da indipendente (anche se Scita fa notare che “non credo abbia interesse a correre per il 2021”), da cui magnetizzare attorno a sé le posizioni più moderate del palcoscenico politico, quelle che trovano sponde nella classe media, la stessa che ha sostenuto l’accordo multilaterale internazionale sul nucleare come una via per rompere le vecchie posizioni teocratiche – quelle degli Stati Uniti “Grande Satana” e del “morte agli ebrei” – viste come un ostacolo per il riconoscimenti internazionale dell’Iran.

Il segretario di Stato americano, Mike Pompeo (una delle voci più critiche con Teheran all’interno dell’amministrazione Trump), la vede diversamente: su Twitter ha scritto che prende atto della dimissioni, attaccando Zarif e Rouhani come figure di facciata che nascondono una “mafia religiosa corrotta” dove Khamenei “prende tutte le decisioni” (“La nostra politica è invariata: il regime deve comportarsi come un paese normale e rispettare la sua gente”, scrive Pompeo).

 

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