Saranno in molti a considerare gli ultimi “scenari economici”, tracciati dal Centro studi di Confindustria, viziati da un eccesso di pessimismo. L’establishment che si ribella contro il potere del popolo, nel tentativo di metterne in luce le lacune ed insufficienze. Fosse così, sarebbe da metterci la firma. Ma purtroppo quel pessimismo non alberga solo in Viale dell’astronomia, dove ha sede Confindustria. “In febbraio €-coin è nuovamente diminuito (a 0,24 da 0,31 in gennaio), riportandosi sui livelli di inizio 2015”: si legge sul sito della Banca d’Italia”. Nei primi due mesi del 2019, rispetto alla fine dell’anno il crollo è stato pari al 42,8 per cento. Il segno di una crisi che non è solo italiana, ma riguarda l’intera Eurozona. Con una differenza, tuttavia: “le frenate in Europa – come annota il rapporto – da noi diventano stagnazione”.
Le ragioni di questa fragilità vanno rintracciate nelle caratteristiche del modello di sviluppo dell’economia italiana. “L’economia italiana – è spiegato nel rapporto – è prevista sostanzialmente in stagnazione nel 2019 e in esiguo miglioramento nel 2020. Rispetto alle previsioni formulate ad ottobre 2018, la crescita per quest’anno è rivista nettamente al ribasso: tre quarti da minore domanda interna, un quarto da quella estera”.
Poco o nulla di nuovo sul fronte occidentale. È dal 2012 che la scarsa crescita della domanda interna costituisce il tallone d’Achille non solo dell’economia, ma della società italiana. Allora la compressione fu dovuta alle politiche del governo Monti. Legittimate dallo stato comatoso in cui si era venuta a trovare il Paese: non solo e non tanto per la crescita vertiginosa degli spread, che lasciavano trasparire l’ipotesi di un possibile default, ma per la crisi complessiva dell’apparato produttivo: incapace di reggere alla concorrenza internazionale. Ancora nel 2011 il deficit delle partite correnti della bilancia dei pagamenti era pari a circa 3 punti di Pil. Una prospettiva che durava da diversi anni, ma che, con il trascorrere del tempo si era progressivamente aggravata. La cura fu indubbiamente draconiana e, per molti versi, – si pensi alla tassazione sulla prima casa – eccessiva. Una sorta di accanimento terapeutico. Era comunque necessaria per liberare il mercato dalla zavorra che si era accumulata negli anni precedenti. Fatta di attività ormai decotte o di aziende che non riuscivano, da tempo, a reggere i ritmi della concorrenza internazionale. Sta, comunque il fatto, che le perdite furono ingenti: circa il 25 per cento del valore aggiunto creato nel 2007 fu spazzato via. Le imprese che, comunque, sopravvissero alla stretta darwiniana furono in grado di ricominciare, aggiornando il loro modello di business e conquistando nuovi mercati.
Importante è non dimenticare il ruolo – annota il rapporto “che la produzione italiana ha nelle catene del valore che si sviluppano tra i paesi del continente. L’Italia, oltre a essere un esportatore di prodotti finiti, riveste anche un importante ruolo di fornitore di beni intermedi, buona parte dei quali viene inglobata nei manufatti tedeschi. In undici regioni italiane le esportazioni di beni verso la Germania pesano più del 20 per cento del valore aggiunto manifatturiero”. Ecco quindi la torsione che è intervenuta. Dalla nascita dell’euro, fino al 2007, lo sviluppo economico italiano era più equilibrato. Ed il ruolo della domanda interna aveva una collocazione di rilievo in grado di pesare sul tasso di crescita complessiva. Il tasso di inflazione interna risultava leggermente più elevato, a causa del più limitato sviluppo della produttività. Ma l’esistenza di un maggior deflatore del Pil garantiva un reddito nominale leggermente più gonfiato, che contribuiva a non far tracimare il rapporto debito – Pil. Nel 2007 quel rapporto si era abbassato, per la prima volta, sotto l’asticella del 100 per 100. Seppure per qualche decimale.
L’eccesso di semplificazione produttiva, dovuta all’eliminazione delle aziende meno solide, ha completamente modificato il panorama economico. Si è creata, innanzitutto, una maggiore disoccupazione che ha contribuito non poco al contenimento dei consumi interni. Molte famiglie, d’altra parte, che negli anni precedenti, godendo di un relativo benessere, si erano retratte dal mercato del lavoro, a seguito del peggioramento del loro tenore di vita hanno fatto la scelta opposta. Per la prima volta il numero degli attivi è costantemente cresciuto. Ma la maggiore offerta di lavoro, non incontrando la relativa domanda, ha reso quasi permanente quel tasso di disoccupazione, che non riesce a scendere sotto le due cifre. Fenomeno di isteresi.
Si è così creato un vero e proprio “circolo vizioso”. La domanda interna non cresce, sia a causa dei fattori strutturali precedentemente indicati, che della crescente incertezza politica che si è impadronita dell’intero sistema. Chi non ha risorse non riesce a trovare lavoro. E chi ha un stipendio o gode di una piccola rendita non spende, per paura di tempi peggiori. La domanda interna, di conseguenza si abbassa ulteriormente e le uniche occasioni di sviluppo sono quelle collegate con il mercato estero. Che tuttavia sta rallentando. Ed ecco allora la congiuntura astrale, che fa crollare ogni ipotesi di sviluppo. Per il 2019 le ipotesi del Centro studi parlano di una crescita zero. Encefalogramma piatto, come purtroppo emerge da tante altre previsioni di organismi interni ed internazionali. Un po’ meglio (più 0,4 per cento) dovrebbe andare nel 2020, sempre che per quel periodo vi sarà ancora vita in questa parte dell’Europa.
Ma se si abbassa la soglia dello sviluppo, la sovrastruttura di finanza pubblica diventa insostenibile. Alle minori risorse dei privati corrisponde, infatti una contrazione delle entrate fiscali ed un aumento delle spese necessarie per ridurre i morsi della crisi sociale: basti pensare al salario di cittadinanza ed a “quota cento” in campo previdenziale. Il traguardo di un deficit pari al 2,04 per cento, concordato in sede europea si trasforma in una chimera. Ed infatti, nei calcoli di Confindustria la previsione è quella di un deficit pari al 2,6 per cento in entrambi gli anni del biennio. Ma alla condizione che si risolva in qualche modo il problema del possibile aumento dell’Iva, per il 2020, (23 miliardi) senza gravare sull’economia reale, determinando un’ulteriore stretta sui consumi. O sul deficit che, in questo caso supererebbe abbondantemente il 3 per cento del Pil. Problemi sui quali, almeno nel 2019, la Commissione europea potrebbe chiudere un occhio, considerata la crisi dell’economia reale. Mentre sarebbe più difficile ottenere la stessa condiscendenza per la violazione della “regola del debito”: visto che questo continua a crescere inesorabilmente.
Se questo è il contesto, ed è difficile contestarlo, non si può certo invidiare il ruolo di Giovanni Tria, alle prese con un’equazione difficilmente risolvibile. O almeno che appare tale finché si resta nell’ambito della semplice ortodossia. Quella politica, tanto per intenderci, che rimane tale, nonostante l’avvicendarsi dei governi. Che promettono il cambiamento, ma che poi, come apprendisti stregoni, non riescono a confezionare la giusta mistura.