Malgrado qualche dubbio strategico e politico iniziale, Washington ha continuato a mantenere e a rafforzare la sua presenza militare in Siria, soprattutto nell’est di quel Paese, e anche nell’Iraq occidentale.
Ci sono ormai oltre 400 militari statunitensi già dislocati in Siria, con circa 200 soldati nel nord, ovvero nella regione di Aleppo e nell’area dell’Eufrate orientale.
Le forze Usa sono arrivate in Siria direttamente dal Kurdistan iraqeno, attraverso il passaggio di Al-Walid.
Si tratterebbe, secondo le informazioni più recenti, di 70 mezzi di trasporto e di altri veicoli per il trasporto dei petroli, oltre che per l’armamento e il supporto logistico.
In tutto, oltre 250 vettori.
Il convoglio va soprattutto nella direzione della base di Ain Al Arab, a nord-est di Aleppo, ma anche verso Jabaleh, a nord di Raqqa. Tutto ciò prosegue, in effetti, la politica di mantenimento e, talvolta, di espansione delle truppe nordamericane nell’area, politica Usa che continua dallo scorso gennaio. Altri duecento militari sono stati poi dislocati, in questi giorni, nella base giordana di Al Tanf.
Una base creata, all’inizio, per contrastare il Daesh-Isis, ma che corre oggi quasi a lato della più comoda e probabile linea di comunicazione tra Iraq e Iran, linea che diviene, grazie alla presenza attuale delle forze di Washington, il punto di rottura della “mezzaluna sciita” che dovrebbe collegare, via terra, Teheran e le postazioni di Hezb’ollah in Libano.
Quindi, se mettiamo nel conto una quota, non detta dal presidente Trump, ma molto probabile, di soldati Usa già presenti sul confine israeliano-siriano, abbiamo in totale un migliaio di soldati americani in Siria, mentre altre fonti dell’intelligence Usa parlano di oltre 1500 soldati Usa che dovrebbero rimanere nel nord della Siria.
Le basi che gli Usa utilizzeranno sono sei. E sono tutte in Iraq, esattamente dove si stanno dirigendo i jihadisti del Daesh-Isis dopo la loro sconfitta finale in Siria. Ma questo è il secondo obiettivo.
I marines sono presenti soprattutto in una base vicina a Ramadi, la capitale del governatorato di Anbar, a 1110 chilometri da Baghdad. I rinforzi Usa sono arrivati anche alla K1, una base nordamericana vicino a Kirkuk. La K1, dopo aver fatto da punto di raccolta delle truppe operanti in Siria e di tutte gli armamenti e le infrastrutture, serve oggi per controllare la parte nord del confine sirio-iracheno, dalla parte del settore del Kurdistan presente in Iraq. La terza presenza organizzata Usa in Iraq è la base aerea di Ayn Al Asad, nella quale in presidente Trump è stato lo scorso Natale.
Quindi, una semplice deduzione strategica è già possibile: la forza Usa in Iraq è tale da permettere un pieno controllo del terreno e dell’aria, per tutto l’Iraq; e quindi le sei basi sono tali da porre in continuità il comando dell’Iraq al confine con la Siria e con tutto il resto della strategia Usa in Medio Oriente.
Poi, abbiamo la già citata base di Al-Tanf, che è oggi pienamente operante, a soli 24 chilometri dal triplice confine siriano-giordano-iraqeno, una base, questa, che è stata ben rafforzata con uomini dei marines e reti elettroniche, oltre a nuove postazioni di artiglieria pesante.
Poi, è già attiva anche la base di Al-Raqqa, la vecchia “capitale” del califfato in Siria, poi ancora è funzionante la base di Remelin, a nord-est di Hasakeh, che è il centro politico, da sempre, dei curdi.
Il controllo delle forze Usa sul territorio, con questa nuova dislocazione, è tale da verificare gli spostamenti, le informazioni e le comunicazioni di una vastissima parte di territorio iraqeno, tra Hasakeh e al Tanf, proprio al centro del confine tra Siria e Iraq.
Qual è quindi la logica strategica di questa nuova dislocazione delle forze Usa nel quadrante sirio-iraqeno? Semplice: la pressione Usa sul Golan. Ovvero, il nettissimo sostegno, militare e politico, al riconoscimento della sovranità israeliana sul Golan.
Come è noto, la parte israeliana delle Alture del Golan è stata conquistata dall’Idf durante la “guerra dei sei giorni” del 1967, ma proprio nel 1981 la Knesset, il parlamento israeliano, ha definito la Legge sulle Alture del Golan, nella quale si indicava l’applicazione della legge israeliana, della amministrazione civile e della giurisdizione di Gerusalemme su quei territori.
Se ci ricordiamo quei tempi, Israele conquistò ben tre territori specifici, alla fine della “guerra dei sei giorni” del 1967. Ovvero, la Striscia di Gaza e la penisola del Sinai dall’Egitto e, ovviamente, le Alture del Golan dalla Siria.
Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, sempre in quella fase, fece passare la Risoluzione 242, detta anche land for peace, nella quale si proponeva, in linea di massima, una pace stabile e formalizzata tra Israele e gli Stati arabi confinanti, in cambio di un parziale o totale ritorno dei territori ai precedenti Stati sovrani.
Prima del 1967, nella Alture del Golan vivevano oltre 150.000 siriani, mentre oggi vivono, in quell’area, 25mila arabi drusi, in grandissima parte cittadini siriani, e oltre 20.000 coloni ebrei, ma tutti i residenti sono comunque passibili di cittadinanza israeliana.
Nel 1981, poi, Israele ha annunciato l’annessione simultanea di Gerusalemme Est e delle Alture del Golan, mentre il Consiglio di Sicurezza dell’Onu condanna, poco dopo, lo stato ebraico solo per l’annessione delle Alture, con la Risoluzione 497.
Ci sono state trattative, anche segrete (nel 2010) tra Gerusalemme e Damasco, per la questione della sovranità delle Alture del Golan. Sul piano strategico, l’area è estremamente importante per Israele, come anche per la Siria.
Ma, nelle Alture, vi è anche il bacino di drenaggio del Giordano, del lago di Tiberiade, dello Yarmuk e di alcune reti idriche sotterranee che arrivano fino alla costa del Mediterraneo. Per non parlare poi del petrolio: milioni di barili, recentemente scoperti, sarebbero presenti sotto il terreno delle Alture.
E, certo, questo annuncio per il sostegno alle mire israeliane sul Golan, da parte di Trump, se, da un lato, ha una sua razionalità strategica riguardo agli interessi statunitensi nell’area; non può non essere letto anche come un forte sostegno alla campagna elettorale di Netanyahu, che sembra essere ancora il candidato preferito da Washington.
La politica di Trump sulle Alture del Golan è, però, nuova e, per certi versi, contraddittoria. Da sempre, gli Usa, soprattutto in Medio Oriente, pensano alle trattative sui territori come risultato di negoziazioni dirette tra le parti interessate. Peraltro, il diritto internazionale oggi invalso non riconosce, comunque, la sovranità di Israele sui territori occupati nella guerra del 1967. Si noti, peraltro, che proprio nel 2010 Israele offrì a Damasco un accordo di tipo land for peace. Ma i negoziati cessarono nel marzo 2011, per l’ovvio inizio della guerra civile siriana. Ma, per Gerusalemme, le Alture del Golan erano allora senza controllo alcuno da parte di Damasco, oggetto di guerra tra Al Nusra, la “filiale” siriana di Al Qa’eda, l’Isis-Daesh e qualche altro gruppo jihadista. A che serviva trattare con Assad? La Siria, anche oggi, non fornisce peraltro alcuna attività di sostegno alla popolazione e sicurezza per le Alture: solo Israele oggi provvede all’acqua, ai servizi di base, all’economia dell’area e, ovviamente, alla sicurezza interna.
Netanyahu, fin dai tempi di Barack Obama, ha peraltro chiesto agli Usa il “via libera” per l’annessione. Obiettivo di Usa e Israele, ora che Trump vuole controllare le aree delle Alture del Golan dal centro della Siria e dell’Iraq, è quindi quello di interrompere la linea terrestre tra l’Iran (e l’Iraq) fino alla Siria e al Libano meridionale e, soprattutto, al Mediterraneo.
Che è, peraltro, l’obiettivo primario della partecipazione dell’Iran alla guerra in Siria. Era questo l’oggetto della trattativa lo scorso 18 marzo, nell’incontro segreto tra leader iraqeni, siriani e iraniani. E, per Trump, le operazioni nel “Siraq”, anche se fossero, come oggi ci sembra, sostenute anche da Putin, sono finalizzate a un chiaro obiettivo: il blocco di ogni operazione tesa alla unificazione tra Siria e Libano.
L’idea, poi, di un “mercato comune” tra Iran, Iraq, Siria e Libano è ormai diffusa tra le classi dirigenti dell’area. Un evidente sotterfugio strategico. Ma non sarà certo questo l’oggetto delle trattative tra Mike Pompeo e Michel Aoun, il presidente libanese, dal quale il Segretario di Stato Usa vuole sapere una cosa sola: se il Libano accetterà di far parte dell’asse Iran-Siria-Iraq-Hezb’ollah, quindi allora gli Usa colpiranno con dure sanzioni il sistema bancario libanese, che è già fortemente in crisi, mentre gli altri passaggi mediorientali della presidenza Usa, dopo il riconoscimento della sovranità di Israele sulle Alture del Golan, saranno: un rafforzamento delle sanzioni all’Iran, la possibile presa di una base militare a Nord del Libano, infine una forte presenza militare sia nel Golan che altrove, ma all’interno del quadrante israeliano.