“Il terrorismo può essere battuto solo mettendo insieme prevenzione e repressione, per questo il Parlamento deve affrontare nuovamente, e in modo bipartisan, il tema di una legge sulla deradicalizzazione la cui mancanza è stata sottolineata anche nella conferenza internazionale organizzata dal Dis”. Andrea Manciulli, presidente di Europa Atlantica e grande esperto di terrorismo, è più competente e sensibile di altri sul tema: nella scorsa legislatura, come parlamentare del Pd e insieme con Stefano Dambruoso (Civici e innovatori), presentò una legge sulla deradicalizzazione che fu approvata dalla Camera, ma non dal Senato prima dello scioglimento del Parlamento. Inoltre, Manciulli fu anche presidente della delegazione italiana presso l’assemblea parlamentare della Nato.
Qual è la concreta utilità di una conferenza come quella organizzata a Roma con 40 delegazioni?
Quel tipo di riunioni serve molto e voglio lodare l’iniziativa del Dis, tanto più perché non era incentrata solo sulla parte repressiva del fenomeno terrorismo, ma soprattutto sulla prevenzione e sul contrasto alla radicalizzazione che è da sempre il punto nevralgico di come si deve procedere. Anche nei rapporti che ho avuto modo di curare per la Nato il cuore del problema era appunto questo: fare in modo che tutti i Paesi della Nato e dell’altra sponda del Mediterraneo avessero un doppio registro, repressivo e preventivo. Quindi l’iniziativa presa dall’Italia ha una valenza estremamente importante anche per la partecipazione, più ampia rispetto ad altre occasioni. Rappresenta anche un riconoscimento del ruolo dell’Italia.
Nella conferenza molti relatori hanno detto chiaramente che in Italia manca una legislazione ad hoc. Lei fu l’autore con Stefano Dambruoso della legge sulla deradicalizzazione. Come nacque quel testo?
L’assenza di una legge pesa soprattutto perché favorirebbe gli operatori. Non era voluta solo dalla politica, ma quando Dambruoso e io fummo i relatori del decreto antiterrorismo del 2015 l’esigenza di una legge di questo tipo nacque dal confronto con la magistratura, le forze dell’ordine e i Servizi, cioè con tutti gli operatori. Sarebbe importante riprenderla e anche che tutti i Paesi avessero il doppio registro, preventivo e repressivo.
In attesa di una legge del genere, l’Italia sembra però un passo avanti agli altri.
Siamo tra quelli più virtuosi come conferma l’esperienza di Bari spiegata dalla professoressa Laura Sabrina Martucci in quella conferenza. Ma non possiamo restare in una fase artigianale: sarebbe importante che quell’iniziativa parlamentare venisse ripresa, anche se oggi c’è una diversa maggioranza di governo.
È un classico tema bipartisan, la sicurezza è nell’interesse nazionale.
Con un’altra maggioranza si possono aggiungere contenuti, aggiornando quell’impianto, ma salvaguardando l’importanza del doppio registro. Non c’è niente da fare: il terrorismo, se non si mette insieme prevenzione e repressione, non sarà battuto. Uno dei temi forti di quella riunione è quel che succede con le mogli dei combattenti Isis e con i bambini che sono stati allevati in quella realtà. Temi su cui alcuni Paesi stanno confrontandosi in una maniera tutt’altro che facile, anzi spesso i percorsi di rientro di donne e bambini dalla radicalizzazione sono i più difficili.
Quali erano i punti essenziali di quella legge?
Il cuore era rappresentato da scuola, carceri e luoghi di aggregazione. Per la tipologia del terrorismo che si sta mostrando e soprattutto dopo il forte impatto del jihad mediatico, il tema delle scuole e dei giovani è estremamente importante. C’è un fenomeno, dai videogiochi alle chat, che facilita il proselitismo giovanile i cui primi segnali si percepiscono nelle scuole. La nostra legge apriva un canale di finanziamento e di monitoraggio di questo fenomeno formando gli insegnanti a riconoscere i segnali di radicalizzazione precoce, che in Italia si sono verificati: basti pensare a Meriem Rehaly, la marocchina fuggita da Padova per arruolarsi nell’Isis e condannata in contumacia.
Le carceri sono da sempre un potenziale luogo di proselitismo: che cosa prevedevano quelle norme?
Davano al ministero della Giustizia e al Dap più risorse e un piano per un contrasto ulteriore del fenomeno, anche se l’amministrazione penitenziaria sta già lavorando molto bene su questo fronte. Serve poi un ampio monitoraggio dei luoghi di aggregazione come quelli di lavoro. L’obiettivo è prevenire la possibile radicalizzazione violenta, intercettarla e drenarla prima che diventi un reato. Un simpatizzante non può essere arrestato se non compie i reati previsti dal decreto del 2015.
Infatti in quella conferenza si è detto che l’urgenza attuale è quella di evitare che il radicalizzato diventi un terrorista.
E’ esattamente così. Un altro aspetto emerso è la collaborazione con il Nord Africa perché la radicalizzazione più importante per noi (senza dimenticare l’Asia) è rappresentata dal fronte del Sahel che si estende sempre di più: un fenomeno forte, pervasivo e quindi pericoloso per noi. La situazione in Libia evidentemente acuisce il problema. Anche per questo sarebbe importante una legislazione omogenea in Europa.
In che senso?
L’iniziativa del Dis ha bisogno di continuità favorendo una pressione sui parlamenti dei vari Paesi partecipanti, in particolare di quelli aderenti alla Nato e all’Unione europea, affinché ci siano sempre più norme che si assomigliano. Le differenze portano problemi anche nelle cose più minute. E’ sempre utile l’esempio delle schede telefoniche: in Italia servono il codice fiscale e un documento, altrove si comprano come un pacchetto di caramelle. L’antiterrorismo europeo e quello Nato dovrebbero impegnarsi per favorire un’omogeneità legislativa.
Sul fronte di una legislazione organica sulla deradicalizzazione come sono organizzati gli altri Stati europei?
Quando scrivemmo la legge eravamo i primi e, anche se non è stata approvata, ha ispirato in Inghilterra e in Francia nuove prassi e norme. In Francia c’è oggi un piano di azione nazionale di prevenzione anche se ha un fenomeno molto più ampio del nostro. Tenere le cose ferme non aiuta: mi auguro che questo tema sia tolto dall’agone politico e che abbia una forte impronta di interesse nazionale. Mi auguro che quella conferenza possa spingere la politica a metterci mano a prescindere dai colori. Io stesso mi sento in dovere di aiutare questo processo essendone stato protagonista nella scorsa legislatura.