“La mafia si può vincere” è il titolo del libro di Giacomo Ciriello che tra il 2008 e il 2011, da capo della segreteria del Viminale, ha vissuto il ministero dell’Interno di Roberto Maroni. Un periodo caratterizzato da una infaticabile attività di lotta alla mafia, un lavoro che ha riscosso apprezzamenti bipartisan. In questo volume – Aragno Editore – Ciriello ripercorre quegli anni. Formiche.net lo ha intervistato.
La mafia si può vincere. Cosa resta di quei 42 mesi di lavoro e che cosa è rimasto all’Italia?
Moltissimo per l’Italia, eppure assai poco nella memoria collettiva degli italiani. Resta un approccio e un metodo di lavoro che ha consentito il raggiungimento di risultati senza precedenti.
La lotta alla criminalità organizzata si fa unendo le forze, tutte le forze istituzionali, politiche, economiche, sociali, culturali. Troppo spesso, invece, in questo nostro Paese si cade nell’errore di dividere il campo, assegnando patenti di antimafiosità. Maroni era il Ministro dell’Interno del IV Governo Berlusconi. Nella lotta alla mafia ha lavorato con tutti: in primis, con la magistratura (da Pignatone a Roberti, da Cafiero de Raho a Laudati, da Lepore a Lembo, abbiamo lavorato con tutti), rispettandone il ruolo, apprezzandone l’impegno, raccogliendone i suggerimenti in tavoli di lavoro convocati periodicamente nelle aree più esposte del Paese; poi, con l’opposizione di centrosinistra in Parlamento – molti provvedimenti sono passati all’unanimità! – con sindaci, presidenti di provincia e di Regione anche di diverso orientamento politico, con le associazioni attive sul territorio per la promozione del valore della legalità e non hanno paura di manifestare contro la mafia e di gestire beni un tempo appartenuti a famiglie criminali.
Sul piano strettamente operativo?
Dicevo, risultati senza precedenti. Ho dedicato una sezione del libro, quella finale, per rendere conto di queste affermazioni, con dati che mettono a confronto quel periodo con i due anni precedenti e i due anni successivi. La legislazione antimafia, anche grazie a una intensa collaborazione con il Ministro della Giustizia Alfano, fu aggiornata e resa più efficace, con nuovi strumenti e nuove misure per tutto il sistema di giustizia e di sicurezza, nuove risorse per le Forze di polizia. Fu istituito il Fondo Unico di Giustizia, creando un circuito virtuoso attraverso i capitali sottratti alle mafie. Fu creata l’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati (se ne parlava nelle Commissioni parlamentari antimafia da almeno un paio di legislature prima); furono introdotte le white list negli appalti, le norme per tracciare i flussi di denaro; fu definito un inedito coinvolgimento dei militari nel presidio del territorio; fu deciso l’inasprimento del 41 bis, il carcere duro tanto odiato dai mafiosi. E varato per la prima volta il Codice delle leggi antimafia.
Il metodo Maroni – giudicare in base al merito della proposta e non alla provenienza – è un unicum in Italia? Considera l’esperienza Maroni una parentesi straordinaria o un modello che poi è stato seguito da altri?
Non saprei dire se si è trattato di un unicum. Posso dire che quel metodo ha reso possibile quella unità di azione e quei risultati. Non mi risulta che quelle misure introdotte allora siano state messe in discussione, almeno in punto di principio e questo conferma la loro validità ed efficacia. Sto girando il Paese, da Nord a Sud, per presentare questo libro. Chi ha condiviso quella stagione con noi ne conserva integro il valore e il ricordo. In 42 mesi, oltre 800 operazioni antimafia, una media di 8 mafiosi arrestati al giorno, la cattura di quasi tutti i superlatitanti presenti nell’elenco dei 30 più pericolosi, oltre 25 miliardi di euro di controvalore di beni sequestrati e confiscati alla mafia.
Quale era il clima che si respirava negli uffici in quel periodo? Avevate percezione del lavoro che stavate svolgendo, vi accorgevate dalle reazioni dei cittadini?
Assolutamente. Con il passare dei mesi l’obiettivo indicato dal ministro Maroni – mettere al primo posto la lotta alla mafia – e più avanti rilanciato pubblicamente dal Presidente Berlusconi, è stato vissuto con sempre maggiore coinvolgimento, personale e professionale. Peraltro, la condivisione di quell’obiettivo generò una spinta fortissima al raggiungimento di risultati concreti da parte di tutti; tra le Forze di polizia, nella cattura dei latitanti, nelle operazioni antimafia, nel sequestro dei beni.
I bollettini che Maroni chiedeva mensilmente divennero asticelle da superare, mese dopo mese, percentuale dopo percentuale. Da un certo momento in poi, quei report furono consegnati in Consiglio dei ministri a tutti i ministri perché si appropriassero nel senso migliore del termine di quello sforzo, che era anche una crescente responsabilità. Si badi, in un periodo senza stragi di mafia, fortunatamente. Al Viminale supervisionavo la corrispondenza del Ministro: quante lettere di plauso, incitamento ad andare avanti in quest’opera di bonifica criminale, moltissime proprio dal Mezzogiorno d’Italia, imprenditori non più rassegnati a chiudere o ad andare via. Ogni giorno si finiva tardissimo, ma si tornava a casa orgogliosi.
Qual è – tra le tante operazioni – quella che ricorda in maniera particolare?
Ne parlo nel libro. La cattura di Domenico Raccuglia e la visita che ne seguì, il 20 novembre 2009, del Ministro Maroni a Palermo. Raccuglia, latitante da 15 anni, era il numero due di Cosa Nostra dopo Matteo Messina Denaro. La gente applaudiva per le strade quell’uomo venuto dal Nord, sentiva che rappresentava lo Stato, non il suo partito, non solo il suo Governo. Come deve essere. Facemmo visita a tutti, anche alla mitica Squadra catturandi. Fu una giornata di grandissime emozioni; una delle poche volte in cui ho visto veramente emozionato anche il Ministro. E non fu l’unica. Penso anche alla visita alla Questura di Napoli il 18 novembre 2010, in un clima di grande sintonia tra magistratura e Forze dell’Ordine, all’indomani della cattura del boss dei Casalesi Antonio Iovine, latitante da 14 anni.
Che persona era Antonio Manganelli?
Una persona speciale. Te ne accorgevi quando prendeva la parola o passava in rassegna i reparti. Il prefetto Manganelli è stato un poliziotto e un investigatore di eccezionali qualità. Ha combattuto la mafia, sul campo. Con responsabilità sempre maggiori. Nell’ultima fase del nostro periodo al Viminale ha dovuto far fronte a un male, che poi se l’è portato via. Ma è rimasto al suo posto fino all’ultimo giorno. La sua squadra lo ha aiutato in un modo esemplare, dai suoi vice Izzo, Cirillo e Basilone all’instancabile capo della segreteria del Dipartimento di Pubblica Sicurezza, Valeri. E poi ha avuto al fianco una donna straordinaria, sua moglie Adriana.
Godeva della stima e lavorava con lealtà con tutti i vertici dei Servizi e delle altre Forze di polizia, dall’Arma dei Carabinieri, all’epoca guidata dal generale Gallitelli, alla Guardia di finanza di cui era capo il generale Di Paolo.
Sulle scelte più importanti, dai casi di ordine pubblico ad alcune riforme, Maroni consultava sempre Manganelli.
Ricordo, sulle proposte di modifica delle norme sulle intercettazioni il suo parere è stato fondamentale per gli orientamenti via via espressi dal ministro Maroni, in sede politica e governativa.
Lei scrive che la classe dirigente di centrodestra era sprovvista di una solida cultura antimafia e che nel programma di quella maggioranza non era mai esplicitamente citata la parola mafia. Frasi piuttosto impegnative.
Il centrodestra, dal 1994 ad oggi, è un interessante esperimento politico favorito dalla “discesa in campo” di Berlusconi, che ha aiutato la transizione italiana dopo la fine, poco gloriosa, della Prima Repubblica. In altre sedi sarà utile valutare il senso di questa lunga esperienza politica e istituzionale; ma le classi dirigenti non si improvvisano. Detto questo, la cronaca ha dimostrato che l’assenza di una solida cultura antimafia non ha impedito un formidabile impegno antimafia di quella classe dirigente. Aggiungo che, diversamente, nel Paese è sempre esistita una destra molto attenta sulla questione della legalità e attiva sul fronte dell’azione e della mobilitazione antimafia.
E allora come si è giunti a quei risultati?
La lotta alla mafia è stata posta come priorità assoluta nell’azione di governo. Ha avuto un interprete di quella linea, Maroni, credibile e determinato, che è riuscito a fare squadra dentro la sua coalizione (i rapporti tra le forze di maggioranza erano buoni e leali), ma anche dentro la sua amministrazione (il Viminale, con Procaccini capo di Gabinetto); incredibile la collaborazione con i prefetti, che hanno un ruolo rilevantissimo, specialmente sul piano della prevenzione antimafia, e più in generale dentro gli apparati di giustizia e di sicurezza, dentro il Parlamento e nel Paese.
Maroni ha poi avuto collaboratori notevoli, quattro Sottosegretari preziosi: due magistrati d’esperienza, Mantovano e Palma (divenuto poi Ministro della Giustizia), e due leghisti preparati e tenaci, Davico e Viale (attuale Vice Governatore della Liguria). La squadra fa la differenza!
Lei ha ripercorso in maniera dettagliata i 42 mesi dell’avventura al ministero dell’Interno. Ha avvertito l’esigenza di scrivere un libro anche perché secondo lei non è rimasto così impresso nell’opinione pubblica la straordinarietà di quel lavoro? E se sì, come sembra, perché è andata così? Eppure quel governo Berlusconi, come lei ricorda, incassò i pubblici complimenti di Pietro Grasso per l’attività svolta nella lotta alla mafia.
Non solo quelli di Pietro Grasso, anche se le sue parole allora erano molto “pesanti”; si trattava del Procuratore nazionale antimafia…
Prima del caso delle accuse alla Lega nella trasmissione Rai “Vieni via con me”, anche Roberto Saviano aveva espresso apprezzamenti per il lavoro di Maroni. E la sua voce, allora come oggi, era molto importante per l’alto valore del suo impegno di scrittore, nato al Sud, proprio su questi temi.
Ho deciso di scrivere questo libro non solo per aiutare a non dimenticare una stagione esaltante della nostra storia recente, ma anche per consegnare ai miei coetanei o a chi è più giovane di me un messaggio positivo: non è vero che l’Italia non può cambiare, non è vero che lo Stato non vuole vincere la mafia, non è vero che delle Istituzioni non ci si possa fidare. Il nostro Stato ha uomini, mezzi, risorse e volontà per farcela.
Secondo lei si parla abbastanza di lotta alla mafia in Italia?
La mafia si può vincere, ma lo Stato, nonostante i successi di quegli anni, e non solo di quegli anni, non ha ancora vinto.
Per vincere non possiamo smettere di parlare di mafia. Né possiamo abbassare la guardia, la tensione, come singoli e come comunità.
Perché, oltre agli evidenti arretramenti nelle terre di origine, dobbiamo registrare, onestamente, preoccupanti avanzamenti nelle terre di conquista, nel centro e nel nord Italia. Ne dobbiamo parlare perché il silenzio aiuta la mafia.
A riflettori spenti, la mafia si muove meglio, si riorganizza, con uomini e mezzi, si riposiziona, nei traffici illeciti e nell’economia legale.
Lo diceva già il grande politologo Gaetano Mosca in una celebre conferenza del 1900 che la mafia non predilige “i reati rumorosi”, essere al centro dell’attenzione. Non possiamo permetterci di scrollare le spalle.
Che vuole dire?
Il problema c’è ancora. Oggi ha principalmente, ma non esclusivamente, un nome. La mafia più pericolosa si chiama ‘Ndrangheta. Un problema nazionale, da Platì all’hinterland milanese, e internazionale. Per potenza di apparato, di danaro, di pervasività.
Stiamo lasciando sprofondare nel silenzio, nella paura e nel sostanziale immobilismo una intera regione, la Calabria, dove pure negli anni non sono mancati segnali di riscatto. Non c’è un grande progetto, non c’è un piano generale per liberare la Calabria dalla ‘Ndrangheta. Al di là di lodevoli e coraggiose storie di impegno, che si tratti di magistrati, prefetti, Forze di polizia, ma anche amministratori locali, imprenditori, sacerdoti o giornalisti. Rischiamo di pagare un prezzo altissimo per queste distrazioni.
I 42 mesi al Viminale, dal 2008 al 2011, mi hanno convinto che in questa lotta, in cui c’è bisogno di tanti fattori per vincere, chi non può mancare è lo Stato. Tocca allo Stato liberare il territorio e determinare le condizioni per la rinascita. Ma lo Stato, da solo, non basta. Tocca anche a ciascuno di noi di non essere indifferente al malcostume, al malaffare, alla violenza, in qualunque ambiente, nel vivere civile quotidiano.