Allora, Van Poelvoorde, vicepresidente di Arcelor Mittal Europa ha dichiarato mercoledì scorso dopo l’assemblea di Eurofer, l’Associazione dei produttori di acciaio europei, che se non interverranno modifiche al testo del decreto crescita che ha cancellato dal 6 settembre prossimo l’immunità penale per il periodo di attuazione del piano ambientale, lo “stabilimento di Taranto da quel giorno chiuderà” perché di fatto ingestibile, avendo peraltro ancora l’area a caldo sotto sequestro sia pure con facoltà d’uso.
LA CHIUSURA DI TARANTO SAREBBE UN VERO FILM DELL’ORRORE
Un’affermazione secca, perentoria, senza se e senza ma – rilasciata peraltro in una sede internazionale, mediaticamente sovraesposta e sotto i riflettori della grande stampa della Ue – nella quale tutti gli osservatori hanno colto il vivo disappunto (non diplomatizzato) della multinazionale siderurgica francoindiana che aveva immaginato un comportamento ben diverso dell’esecutivo del nostro Paese, dopo l’accordo del 6 settembre dello scorso anno, sottoscritto come si ricorderà con una certa esibita solennità al ministero dello Sviluppo Economico alla presenza del ministro Di Maio, dei sindacati e delle istituzioni locali. Era sembrata avviata nel sollievo generale una nuova stagione per l’acciaieria, assunta poi in gestione operativa dal successivo 1° novembre. E la malaugurata chiusura della fabbrica ionica trascinerebbe inevitabilmente – ma questo non è stato detto esplicitamente – la dismissione di fatto degli impianti di Genova e Novi Ligure collegati funzionalmente ai semilavorati di Taranto. Insomma, un vero film dell’orrore. Uno spettro si aggira per l’Italia, lo spettro di Bagnoli.
Il manager tuttavia ha ribadito con eguale chiarezza che la sua società è pronta a discutere con il governo italiano per trovare una soluzione che consenta al management alla guida del sito ionico – per il periodo di esecuzione del piano ambientale in corso – di non essere chiamato a rispondere penalmente per fattispecie di reati derivanti da situazioni pregresse di nocività nell’impianto che non hanno contribuito a determinare. E il ministro – dopo aver dichiarato a sua volta che “non avrebbe accettato ricatti” e che la decisione assunta con il decreto crescita è stata giusta – ha convocato Arcelor Mittal per il 4 luglio prossimo, incontro cui seguirà quello con i sindacati del successivo 9 luglio. A distanza così di sette anni dal 26 luglio del 2012 – quando venne posta sotto sequestro l’area a caldo dell’Ilva (allora) senza facoltà d’uso – e a distanza di 59 anni dal 9 luglio 1960 quando venne posata dall’allora ministro all’industria Emilio Colombo la prima pietra del siderurgico, questo torrido mese dell’anno finisce con lo scandire ancora una volta un passaggio cruciale nella storia di questa che è tuttora la più grande fabbrica manifatturiera italiana per numero di occupati diretti, oggi pari a 8.250 unità.
Ora, pur non essendo mai stati cultori della filmografia dell’orrore, proviamoci a scorrere i primi fotogrammi di questo thriller, nella malaugurata ipotesi che non si definisca un accordo che tutti (a parole) dichiarano di volere, ma che potrebbe alla fine non essere raggiunto.
COSA PUÒ SUCCEDERE SENZA ACCORDO COL GOVERNO?
Può ArcelorMittal Italia chiudere un compendio industriale che ancora non possiede e di cui al momento è solo locatario, sia pure con impegno all’acquisto? Stricto iure no, non potrebbe, dovrebbe retrocederlo alla gestione commissariale insieme – si badi bene – a tutto il personale assunto dal 1° novembre del 2018 nelle sedi in cui è articolato il Gruppo industriale preso in affitto. E con quali risorse finanziarie l’attuale Ilva ancora in amministrazione straordinaria potrebbe riassumere, presumibilmente a parità di livelli retributivi e di inquadramenti attuali, i lavoratori che fossero retrocessi da Arcelor, avendo già in carico i circa 1.700 cassintegrati che non hanno (almeno sinora) accettato le dimissioni incentivate e che potrebbero teoricamente essere riassunti dai francoindiani dal 2023, se nel frattempo non avessero trovato altra occupazione? Ecco perché, se non de iure, almeno de facto le tre fabbriche di Taranto, Genova e Novi Ligure potrebbero chiudere i battenti, a meno che il governo: 1) non faccia come per l’Alitalia (Ue permettendo) un prestito ponte all’amministrazione straordinaria, chiedendole di gestire i tre siti, in attesa di un nuovo bando di gara per aggiudicarli, con effetti concreti sulla presenza nel mercato poi tutti da verificare, non fidandosi probabilmente più a quel punto nessun acquirente di ordinare una sola tonnellata di coils o di lamiere a Taranto; 2) di rinazionalizzare il gruppo, ammesso che la Ue lo consenta, dovendo comunque trovare un contenitore societario in cui collocare l’intero patrimonio industriale riacquisito, come sta faticosamente tentando di fare per l’Alitalia; 3) non decida di chiudere tutti gli stabilimenti, ben sapendo però che così risulterebbero non soddisfatte sia pure molto parzialmente le attese dei creditori che da lungo tempo si sono insinuati nello stato passivo dell’Ilva in amministrazione straordinaria, i quali attendono il ristoro dei loro crediti dall’alienazione definitiva ad Arcelor Mittal Italia dei beni societari che dovrebbero restare però in esercizio. Se fossero invece dismessi i siti, il ristoro ai creditori potrebbe arrivare sempre in misura molto parziale dalla vendita dei cespiti aziendali che avrebbero ovviamente un valore superiore se, una volta smontati, fossero ancora utilizzabili, mentre molto minore sarebbe il loro valore se fossero destinati a rottame. All’inizio degli anni ’90 del Novecento il nuovo treno di laminazione di Bagnoli – che qualche anno prima era costato centinaia di miliardi di vecchie lire – venne venduto in Asia. Quanti macchinari di Taranto, Genova e Novi Ligure potrebbero essere riutilizzabili, una volta smontati dai vecchi impianti? Ma poi, come osserva qualcuno, Genova e Novi Ligure potrebbero restare in attività lavorando bramme trasferibili dallo stabilimento di Arcelor di Fos sur Mer vicino Marsiglia.
Ma pure ammettendo che si vada – con un nuova e probabilmente precaria gestione transitoria – ad un nuovo bando, con quali clausole per i potenziali acquirenti verrebbe preparato? Con l’obbligo di una parziale o totale decarbonizzazione? Garantendo esimenti penali (per il periodo di attuazione dell’Aia che ad oggi è fissata sino al 23 agosto del 2023) per chi acquistasse il gruppo per reati derivanti da situazione pregresse? E chi altri – dopo quanto sarebbe accaduto nel frattempo ad Arcelor – si affaccerebbe in questo Paese che appare agli occhi della business community internazionale sempre più un Paese di pazzi?
RISANARE IL QUARTIERE TAMBURI DI TARANTO
A Taranto e in molti comuni del suo hinterland infine, in caso di malaugurata chiusura dell’impianto – a parte il danno per gran parte dell’industria meccanica nazionale – 15mila addetti fra diretti e impiegati nelle attività indotte andrebbero subito in cassa integrazione, con incerte prospettive di ricollocazione difficilmente prevedibili, almeno a breve termine, in settori di cui Di Maio ha pure incominciato a parlare nella sua ultima visita in città, a proposito di una riconversione economica del suo territorio: comparti che andrebbero dalla mitilicoltura al turismo, e persino alla creazione di un set cinematografico che potrebbe realizzare, secondo il ministro, la Netflix.
Ma perché, continuando la bonifica del sito secondo quanto previsto nel Piano ambientale di Arcelor, non si incomincia a ipotizzare anche il trasferimento programmato ma volontario di fasce della popolazione del quartiere Tamburi – il più vicino allo stabilimento sul quale si riversano maggiormente le sue emissioni nocive – in altra zona del capoluogo ionico? Perché a Genova è stato possibile per gli abitanti dei palazzi vicini al ponte appena abbattuto, e non si potrebbe incominciare a studiare a Taranto un’operazione di grande riqualificazione urbana, utilizzando anche finanziamenti comunitari e nazionali? E poi ancora qualche altra domanda: perché a suo tempo i parchi minerali destinati ad alimentare il siderurgico furono posti non sul lato mare dello stabilimento – come avrebbero voluto inizialmente i progettisti dell’impianto – ma furono invece collocati sul lato terra vicino al Quartiere Tamburi? Quali furono gli interessi che si opposero, (e perché?) a tale razionale collocazione dei parchi minerali? E perché poi da allora e per decenni sono state rilanciate licenze di costruzione di nuove abitazioni in quel quartiere, quando sin dal 1960 (posa della prima pietra del siderurgico) si intuiva che da quei parchi, in giorni di particolare ventosità, vi sarebbe stato il rischio di uno spolverio su un quartiere che allora non contava affatto le migliaia di abitanti che invece ospita oggi nei suoi caseggiati? Insomma, vogliamo fare finalmente una radicale operazione di verità su Taranto e il suo stabilimento siderurgico?