Che la strada fosse stretta si sapeva in partenza. Ma era difficile poter immaginare questa capitolazione di fronte alla Commissione europea. L’Italia ha perso a tavolino. Come in quelle partite di calcio sospese per i tumulti dei propri tifosi. Non ha avuto la forza e le capacità per tentare di affermare un diverso punto di vista. Si è piegata di fronte al diktat della legge. Con tutti i suoi attributi: generalità, astrattezza, imperatività. Ma nessun Paese moderno si governa con il semplice ricorso all’imperativo normativo. Le società nel loro divenire hanno un dinamismo che nessuna regola astratta può imbrigliare.
Nella grande elaborazione giuridica italiana, questi limiti erano stati ben compresi. Era stato Costantino Mortati ad elaborare il concetto di “Costituzione materiale”: la forza delle cose capace di far breccia su principi generali, per piegarli alle esigenze del momento storico di ciascun Paese. Principio, tartufescamente, accolto dalla stessa Commissione europea, quando si è trattato di sopprimere surrettiziamente l’articolo 16 del Trattato istitutivo del Fiscal Compact, che la obbligava ad una verifica attenta dei risultati conseguiti dopo cinque anni di sperimentazione.
Il terreno privilegiato della possibile discussione non doveva essere l’impostazione giuridica dei Trattati. Ma il loro rispondere alle esigenze reali dell’economia. Per individuare quel gap che qualifica in negativo norme pensate cinque anni fa. Quando il mondo non presentava le incognite attuali. Se si fosse accettato, almeno, di discutere questo diverso punto di vista, forse, il compromesso finale non avrebbe lasciato l’amaro in bocca. E contribuito a delineare, almeno in prospettiva, un percorso diverso.
Il nodo del contendere riguarda essenzialmente i rapporti che devono intercorrere tra gli assetti di finanza pubblica e gli altri aggregati del quadro macroeconomico. Rapporto che i Trattati recidono alla base, sorvolando sulle complesse iterazioni tra i vari segmenti che sono tipici dell’analisi economica. Si prenda il dato più preoccupante della situazione italiana: l’eccesso di debito. Debiti pubblici troppo elevati hanno un impatto negativo sull’economia e non solo perché spiazzano spese più produttive. Se il tasso d’interesse, a causa degli spread, supera il tasso di crescita nominale dell’economia, si può rischiare, come avvenne negli anni ‘80 in Italia, una deriva esplosiva. Interessi che producono interessi in una spirale senza fine.
C’è poi un secondo elemento seppure meno percettibile da un punto di vista immediato. La cosiddetta “espansione restrittiva”, che non è un ossimoro. Se gli spread aumentano, essi trascinano verso l’alto tutta la struttura dei tassi d’interesse. Finanziare l’economia, da parte delle banche, diventa più difficile. Il credito si restringe a danno dei più bisognosi. Il tasso di crescita complessiva dell’economia è destinato, pertanto, a rallentare. E di conseguenza il rapporto debito-Pil tende a crescere, generando un circolo vizioso.
Basta, allora, comprimere l’economia con manovre di finanza pubblica, com’è avvenuto in Italia dal 2011 in poi? Dipende. Se all’eccesso di deficit pubblico corrisponde anche un deficit delle partite correnti della bilancia dei pagamenti – il double bit americano – allora la stretta è inevitabile. Come avvenne nel 2011. Essa serve a riconvertire l’economia. Le aziende meno competitive falliscono, liberando risorse (uomini e capitali) che migrano verso quelle più efficienti. Ma se i conti con l’estero sono in attivo, come nel caso italiano, questa regola non solo non funziona, ma ha un effetto controproducente. Impedisce infatti un allargamento delle basi produttive del Paese, trasferendo all’estero le risorse che sono originate dagli avanzi correnti. Avanzi correnti che, davanti al punto di vista finanziario, altro non è che eccesso di risparmio, cui non corrisponde un adeguato livello di investimenti.
La fotografia del caso italiano. Passato bruscamente dalla prima alla seconda situazione, avendo avuto come spartiacque il 2011. Come si vede non mancavano frecce all’arco dei nostri rappresentanti governativi. Bastava aprire gli occhi e costruire una robusta proposta programmatica. Se non fosse che “Quos vult Iupiter perdere, dementat prius” (a coloro che vuole rovinare, Giove toglie prima la ragione).