Aveva sessantasei anni Cattabiani quando, in seguito ad una lunga e dolorosa malattia, ci lasciò il 18 maggio 2003. Era nato a Torino il 26 maggio 1937. Ma mentre abbandonava questo mondo si ebbe la sensazione – confermatami da Fausto Gianfranceschi e da Giano Accame che gli furono “fratelli maggiori” in un certo senso – che la sua opera assumesse una connotazione ben più rilevante di quanto avevamo potuto apprezzarla nel momento che si dispiegava sotto i nostri occhi destando la meraviglia di un modo incantato che Cattabiani sapeva riprodurre come uno scrittore rinascimentale, coltissimo ed elegante.
Come poteva immedesimarsi con l’intellettualità dominante, classe di servi priva di indipendenza di giudizio e incline a compiacere il potere, quale che esso fosse, pur di raccattare briciole di interessata carità. Cattabiani, sia detto senza jattanza, era un aristocratico che neppure si abbassava a detestare chi per natura odiava tutto ciò che lo trascendeva. Il suo sorriso appena accennato quando il discorso cadeva sui mazzieri intellettuali solidato dalle segreterie dei partiti era di compatimento, ma difficilmente aggiungeva parole a commento delle volgarità che pure lui, come tanti altri fuori dal recinto del conformismo culturale, doveva subire. E, nonostante tutto, non si sentiva un “vinto”. Il sentimento che provava era quel “pathos della lontananza” che Nietzsche aveva teorizzato e praticato in tutta la sua tormentata esistenza. Alfredo si accontentava di poco, quasi di niente. Non ha elemosinato cariche e prebende. Viveva del suo lavoro. Scriveva, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, per giornali che pur lo apprezzavano senza mai chiedere un contratto, per poter vivere non sentendosi mai precario. Una volta mi disse: “Sai che non posso ammalarmi? Se salto una rubrica o un cero numero di scritti mensili, non mi paga nessuno”. La libertà ha prezzi che coloro che la svillaneggiano facendone un feticcio retorico neppure immaginano. L’uomo è lo stile, si diceva una volta a Parigi. Cattabiani poteva dare lezioni, gratuite naturalmente. Da aristocratico è morto povero.
Giovanissimo aveva scelto il “campo” nel quale sistemarsi; un campo scomodo, rischioso, insicuro, come ebbe modo di sperimentare in tutte le fasi della sua vita, mai facendosene un cruccio o rimproverandosi la “temerarietà” del cammino che aveva deciso di percorrere.
Il primo atto fu la discussione della tesi di laurea nella “rossissima” Università di Torino, dominata da Norberto Bobbio, su Joseph de Maistre. Una provocazione? Neppure per sogno: un atto riparatore, come mi confidò una volta, per il disamore che si era addensato, anche da parte dei suoi “connazionali” già sudditi dei sovrani piemontesi, sul grande savoiardo ritenuto poco meno di un dèmone dalle vestali della democrazia anche durante il regno sabaudo che aveva servito come meglio non avrebbe potuto. La commissione, vera e propria “giuria” appostata per giudicare il grado di apostasia dei candidati ed il livello della loro “coscienza democratica e comunista” (un ossimoro al quale nessuno faceva caso, naturalmente), non la prese molto bene, a parte il relatore, uomo di grande cultura e di straordinaria umanità, il professor Luigi Firpo, uno dei più valorosi studiosi del pensiero politico cui non faceva impressione il radicalismo dei suoi colleghi. Bobbio che era controrelatore si distinse per spirito di tolleranza, si fa per dire, interpretato alla sua maniera, da pontefice massimo dell’antifascismo militante : prese la copia della tesi che aveva davanti e la gettò in terra, motivando l’elegante gesto con la risibile scusa che non avrebbe mai discusso su un “teorico della schiavitù”. A quel punto, Alessandro Passerin d’Entreves, uno dei più importanti pensatori liberali, storico del diritto oppositore del fascismo e mai tentato dall’ossequio al regime come altri cattedratici che lo affiancavano in quell’occasione, osservò che si stava discutendo non di de Maistre, ma di una tesi su de Maistre e, dunque, il compito della commissione era quello di valutare il lavoro del laureando. Che a tutti – tranne che a Bobbio il quale, da quanto si riuscì a capire, non si pronunciò (la votazione avveniva senza la presenza del pubblico) – parve di ottimo livello.
Cattabiani, pur risultando brillante, comprese in quel momento che la sua vita intellettuale sarebbe stata segnata da quell’esordio “politicamente scorretto” e gli avrebbero fatto pagare l’affronto maistriano ai patetici custodi della Ragione illuminista. Il suo amore per de Maistre soltanto ai poveri di spirito, ai rigovernatori delle ideologie nei lavelli unti delle casematte partitiche, poteva apparire come uno sgarbo fatto di proposito, quasi uno schiaffo (che ci stava tutto, beninteso) a chi si atteggiava a chierico dell’azionismo o del comunismo con quell’albagia tipica dei plebei paghi degli avanzi che cadono dai tavoli dei potenti. (…).
Nel 1969, a soli trentadue anni, assunse la direzione editoriale della Rusconi Libri inventandola dal nulla e lanciandola temerariamente – è caso di dirlo, senza girarci intorno, con un atteggiamento apertamente “sovversivo” contro il conformismo culturale dell’epoca – in una battaglia delle idee che alla fine gli costò cara, quando il potere cattocomunista, appunto, costrinse l’editore a metterlo alla porta.
La sinistra arrivò ad invocare un “cordone sanitario” attorno alla Rusconi a difesa del progresso e della democrazia: roba da far accapponare la pelle, mentre i “confortevoli gulag” del compagno Brezvev si affollavano di dissidenti che spesso vi trovavano la morte nell’i differenza di intellettuali italiani fiancheggiatori chiamati ad importanti incarichi nelle istituzioni culturali: un clima orrendo nel quale il terrorismo cominciava a farsi sentire a compi di bombe e di omicidi.
Cattabiani, pur consapevole delle difficoltà che doveva fronteggiare, non si lasciò intimidire e fu protagonista, pur non volendolo, di una stagione culturale all’insegna dell’anticonformismo e della libertà di pensiero come poche ce ne sono state nel secondo Novecento italiano: una storia che andrebbe scritta dettagliatamente non tanto per onorare un grande e coraggioso intellettuale (non ne ebbe bisogno allora, poco se ne fa da morto), ma per testimoniare e documentare una “resistenza intellettuale” che neppure borghesi, conservatori, liberali, cattolici e “destristi” vari ebbero la sensibilità di sostenere, con l’eccezione di pochi intellettuali e politici, emarginati nei loro stessi gruppi di appartenenza.
La Rusconi di Cattabiani si impose con un catalogo di tutto rispetto, poi “saccheggiato” senza neppure l’eleganza di citarlo da editori snob che non hanno avuto bisogno di essere “sdoganati”, né di pagare i propri pedaggi essendo nati a sinistra, o nel plumbeo agnosticismo funzionale al potere, e portandosi poi leggermente altrove, fin nelle propaggini della Destra, depurando e manipolando, o in quei luoghi dove non c’è nessuno, come avrebbe detto Drieu La Rochelle, uno degli autori più amati da Cattabiani.
Sul mercato editoriale, nonostante il boicottaggio dei recensori di professione, Cattabiani s’imponese proponendo gli “impresentabili”, da de Maistre a Donoso Cortés, da Simone Weil a Georges Bernanos, da Augusto Del Noce a Ugo Spirito, da Pavel Florenskij a Guido Ceronetti, da Cristina Campo – una delle luci più luminose del secolo scorso – a Ernst Jünger, dal “borbonico” Carlo Alianello al sulfureo Barbey d’Aurevilly, a collaudati conservatori come Giuseppe Prezzolini, e poi Amanda Coomaraswamy, Titus Burckhardt, Mircea Eliade, René Guénon, Giuseppe Sermonti, Fausto Gianfranceschi, fino a J.R.R. Tolkien che nessuno in Italia aveva avuto il coraggio di pubblicare, benché i suoi testi non fossero “politici”, ma fantastici e, se si vuole, “metapolitici”, allegorie di un mondo mitico nel quale i valori aristocratici, gerarchici, eroici erano i veri protagonisti.
La cosmogonia tolkieniana, riassunta (si fa per dire) nell’imponente Il Signore degli Anelli, diventò un riferimento di culto per giovani alla ricerca del mondo di domani: l’avvenire apparteneva a chi sapeva sottrarsi dalle imposture del realismo socialista e del progressismo straccione, con l’entusiasmo di chi nel “realismo fantastico” s’immergeva più che per sfuggire al mondo circostante, per guadagnare lidi sui quali costituire un’alternativa spirituale. Ed era questa l’unica rivoluzione possibile che in tanti, nelle alte sfere della cultura e della politica, non capirono. Fu Élemire Zolla a convincere Cattabiani a pubblicare quell’opera che si presentava come impegno editoriale gravosissimo: oltre millecinquecento pagine nell’edizione inglese. Per di più Alfredo non era convinto che letterariamente funzionasse, mentre stimava molto il Tolkien saggista. Ma un po’ il gusto della sfida, un po’ la fiducia dell’editore, un po’ l’intuito supportato dalle insistenze di Zolla, lo indussero al gran passo. E fu sorprendente il successo che ottenne. Il mondo degli hobbit fece irruzione in Italia grazie ad un elfo piemontese, molto snob e immensamente coraggioso. (…)
Anche come giornalista ha avuto il merito di portare all’attenzione autori e tendenze che non avevano praticamente cittadinanza nel panorama culturale. Contemporaneamente cominciò a farsi apprezzare come studioso delle tradizioni, dei simboli, della storia delle religioni producendo una serie di volumi di grande spessore il primo dei quali è il Bestiario del 1984 che riproponiamo nella certezza che la bellezza stilistica e la profondità delle argomentazioni, attraggano come allora, trentacinque anni fa, nuovi lettori alla ricerca di pagine da godere unitamente a profondità spirituali da esplorare.
I protagonisti del Bestiario sono animali reali, simboli ed incarnazioni di “energie cosmiche” che offrono il destro all’autore per intrecciare singolari racconti-dialoghi nei quali rievocazioni di episodi bizzarri si mescolano a riflessioni di carattere teologico e filosofico. Cattabiani organizza così un suo piccolo universo popolato da animali con i quali si è relazionato, scoprendo nelle loro attitudini, negli atteggiamenti e nelle manifestazioni affettuose o di ostilità la natura profonda che nascondono e dalla quale, soprattutto nell’antichità pagana, è venuta fuori una sorta di rappresentazione delle forze della natura che sono anche connaturate agli esseri umani. Un gatto – animale molto amato da Alfredo – non è solo un gatto, un leone non è solo un leone, ma tutto il mondo animale, il “bestiario” insomma, è anche, secondo Cattabiani, la personificazione, o trasposizione, di “energie cosmiche” appunto, cioè di Dèi. Tali energie sono esemplificate dai simboli che nel libro diventano protagonisti dei racconti , nella convinzione, tratta da Guénon, che la forma simbolica aiuta a comprendere e a penetrare la verità. Un “bestiario” che non è un catalogo, un libro scientifico, ma “un teatro da camera” proiettato su una minuscola ribalta dove i lettori “saranno tentati di trasformarsi negli attimi di un gioco di illuminazioni reciproche”.
Il Bestiario, non diversamente dai libri che seguiranno è radicato profondamente nelle nostra civiltà. Da Esopo a La Fontaine: gli animali sono stati considerati, infatti, come lo specchio della condizione umana. Cattabiani amava ricordare che la civetta è ben più che una civetta, così la cicala, l’asino, il delfino o l’aquila: sono simboli, semplicemente… Alfredo Cattabiani, anche nel Bestiario ampliato in Bestiario segreto, apparso nel 1995, con l’aggiunta di cinque capitoli, riprendeva lo stile dialogante che richiama Plutarco e il ritmo divagante di un’opera buffa. Lo spunto biografico, in entrambi i libri, cioè l’incontro con l’animale di volta in volta protagonista non è che un’occasione per esplorare le valenze del simbolo nel suo versante storico, culturale e religioso. Senza tuttavia trascurare, tenendo conto della psicologia moderna, che ogni animale rappresenta una precisa esperienza psichica.
Mentre scrivo queste note ho davanti a me la seconda edizione di Calendario, saggio impegnativo che quasi lo consumò per la pignoleria di documentarsi sugli eventi più remoti e meno conosciuti. Uscì nel settembre 2003 e Alfredo non fece in tempo a vederla pubblicata. Nella prefazione, datata il giorno della festa di Sant’Antonio di Padova del 2002, si legge: “Forse siamo sulla soglia di una mutazione epocale. Se così fosse, non sarebbe del tutto inutile ripercorrere a futura memoria, come fece Macrobio al tramonto della religione e della civiltà romane, l’intreccio di feste che hanno formato il nostro popolo cercando di spiegarne le origini e i significati spesso appannati da interpretazioni fuorvianti”.
È in questa “memoria” lo scopo della straordinaria impresa alla quale Cattabiani s’è dedicato per tutta la vita, forse il suo assillo costante come organizzatore di cultura, editore, giornalista, studioso, scrittore: far vivere, insomma, gli elementi storici, tradizionali, religiosi che hanno formato,il tessuto connettivo del nostro popolo, la cui ignoranza è la causa principale, ma non la sola, della decadenza nella quale siamo immersi.
Per questo – è per molto altro ancora – Alfredo Cattabiani resterà nella nostra memoria come una sorta di hidalgo, al di là del tempo, consapevole di aver adempiuto al compito arduo e affascinante, al tempo stesso, di divenire ogni giorno se stesso, fedele al motto che il suo “ispiratore”, sempre presente nella sua umana vicenda, il Conte Joseph de Maistre volle far scrivere sul suo bianco sepolcro nella Chiesa dei Santi Martiri a Torino – dedicata ai più antichi patroni della città: Avventore, Ottavio, Solutore e voluta nel 1577 da Emanuele Filiberto – “Fors l’honneur nul souci”, oltre l’onore nessun’altra preoccupazione.