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Perché gli Usa hanno sanzionato il ministro degli Esteri iraniano Zarif

Gli Stati Uniti spingono ancora sul confronto simbolico con l’Iran e mettono sotto sanzioni il ministro degli Esteri, Javad Zarif. Seguendo un’intenzione resa nota circa un mese fa, il Tesoro — che col dipartimento di Stato si occupa di certe designazioni — ha comunicato la decisione ieri, praticamente in contemporanea all’ufficializzazione del prolungamento sulle esenzioni dal sistema sanzionatorio extraterritoriale ad alcuni Paesi che cooperano con Teheran sul nucleare civile (tra questi Russia, Cina, Francia); annuncio che sembrava una distensione, e per questo aveva creato malumori tra i falchi anti-Iran repubblicani, subito abbinato alla mossa contro Zarif.

PERCHÉ LE SANZIONI A ZARIF

Le sanzioni al ministro sono una decisione molto forte, perché è l’esponente più importante della linea moderata costruita dal governo Rouhani nei suoi due mandati. Visioni che hanno permesso alla Repubblica islamica di riaprire un dialogo negoziale diretto con gli Stati Uniti decenni dopo la rivoluzione khomeinista e arrivare allo storico compromesso del Jcpoa. Zarif è il simbolo iraniano dell’accordo sul congelamento del programma nucleare firmato nel 2015, su cui il governo di cui fa parte ha scommesso per rilanciare l’economia iraniana, fiaccata dalle sanzioni. Una scommessa vinta tra la gente, che ha preferito questa linea da quella degli oltranzisti (i Pasdaran e i loro referenti politici), perché prometteva l’eliminazione dell’isolamento collegato alla corsa atomica. 

Il ministro è parte dell’iconografia internazionale di quella fase storica insieme all’omologo statunitense John Kerry — con cui ha avuto una relazione operativa non senza problemi. Invece, ora che gli Stati Uniti sono usciti dall’accordo che avevano contribuito a costruire (reintroducendo le sanzioni e gettato nuovamente nel buio l’economia di Teheran), quella stessa immagine è asimmetricamente rappresentata dall’erede trumpiano di Kerry, Mike Pompeo, che definisce il collega iraniano “apologeta del regime”; per anni è stato “complice” delle “attività maligne” insieme alla “Khamenei’s mafia”, dice Pompeo — la mafia di Ali Khamenei, la Guida suprema della teocrazia iraniana, finito sanzionato a giugno con trattamento simile a quello riservato a Zarif (divieti di viaggio, congelamento dei beni in Usa, sanzioni secondarie contro chi fa affari con loro, etc). “Non è semplicemente il braccio diplomatico, ma anche un mezzo per far avanzare molte delle politiche destabilizzanti del leader supremo”, ha detto Pompeo.

Il ministro ha reagito caustico su Twitter — spazio che è solito bazzicare, usando un registro comunicativo che va dall’ironico all’aspro — e ha scherzato sul motivo della sua designazione: “La ragione per cui gli Stati Uniti mi hanno designato è che sono il ‘portavoce principale dell’Iran in tutto il mondo’. La verità è davvero così dolorosa?” (d’altronde è ministro degli Esteri, dunque effettivamente è la voce del suo Paese nel mondo, anche della propaganda governativa).

Poi ha calcato la mano contro quello che chiama il “B-team” dell’amministrazione Trump, ossia il gruppo di falchi interni — su tutti il consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton — che costringerebbe il presidente a prendere decisioni forti che escono da suoi piani. Frecciate che sfruttano ricostruzioni pubblicate nei media americani, secondo cui l’azione della Casa Bianca — che per esempio sul dossier iraniano vorrebbe aprire nuove trattative per arrivare a un nuovo e più ampio accordo — viene intralciata da visioni e letture laterali (d’altronde è stato lo stesso Trump a criticare Bolton definendolo uno che “vorrebbe fare la guerra con tutti”).

LA VIA DIPLOMATICA ALLA CRISI SI COMPLICA

Le sanzioni contro Zarif rendono effettivamente complicata la via diplomatica alla crisi innestata sul piano del Jcpoa e sfociata lungo le rotte petrolifere del Golfo Persico — sebbene alcuni funzionari americani abbiano specificato che il ministro non era il loro punto di contatto con Teheran (in parte una sottolineatura sull’inversione di rotta dall’amministrazione precedente, in parte per dire che per Washington non è così fondamentale). 

La maggior parte degli analisti considera l’azione americana come un passaggio della strategia della “massima pressione”, utile anche a bilanciare alcuni allentamenti come quello sul nucleare civile. C’è un braccio di ferro in corso d’altronde e sanzionare Zarif è un gesto dal valore simbolico forte – è probabile che poi gli verrà concesso comunque, come già fatto con i diplomatici nordcoreani, cubani e siriani, di muoversi in un raggio di 40 chilometri dal Columbus Circle a Midtown Manhattan, ossia di essere presente alle riunioni al Palazzo di Vetro, che è il principale podio da cui il ministro iraniano gioca la sua mission diplomatica.

 



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