La Serie A ha debuttato la scorsa settimana, come la B. Ed il dato più notevole che è emerso vedendo i giocatori in campo è la minoranza di italiani: ben il 60% sono stranieri. Un fenomeno preoccupante per il reclutamento dei calciatori della nazionale. Se i posti sono tutti occupati, dove si attingerà per le competizioni internazionali? Perfino nelle serie minori i calciatori provenienti dai Paesi più improbabili cominciano ad essere in numero elevato. A questo dato se ne accompagna un altro di carattere economico. In genere, a parte conclamati campioni, ma anche quale brocco spacciato per buon giocatore, molti stranieri vengono prelevati giovanissimi per pochi soldi: in due o tre anni valgono spesso cinque volte di più di quel che sono costati. I prezzi dei cartellini lievitano come pure gli ingaggi. Far fronte a tante spese sarebbe insopportabile senza l’intervento dei diritti televisivi, le sponsorizzazioni milionarie, le alchimie finanziarie e l’avidità di numerosi investitori (soprattutto asiatici ed arabi) che per i motivi più svariati si appropriano a suon di euro o di dollari dei campionati più prestigiosi, vale a dire di quelli europei, comprando club titolati con un ritorno mediatico e finanziario notevole. Il calcio, insomma, ha assunto le fattezze di un mezzo per altri fini. Il gioco è secondario. Conta il business. L’ultimo mercato (che si chiude in Italia il 2 settembre) ha toccato in Italia la punta record di oltre un miliardo di euro e probabilmente si asterrà a poca distanza da 1,280 miliardi spesi lo scorso anno. Cifre “selvagge” tenendo conto del contesto generale.
Secondo quanto è stato accertato da giornali e istituti specializzati, la Serie A è terza a livello europeo di spese con 1,080 miliardi di euro, dietro la Premier League, cui seguono la Liga spagnola (1,2 miliardi), la Bundesliga (678 milioni) e Ligue 1 (434 milioni).
La finanziarizzazione del calcio, connessa al globalismo che lo caratterizza, gli ha fatto perdere l’anima.
Il calcio insomma è radicalmente cambiato al punto che talvolta ci disgustano certe trasmissioni più incentrate sugli aspetti economico-finanziari del popolare sport che sulla sua essenza. Ciò non significa che non continui ad attrarre platee consistenti di appassionati per quanto delusi. Anche se la tentazione dell’abbandono è forte.
UNA STORIA “REAZIONARIA” DEL CALCIO
Una tentazione che non avremmo avuto un tempo. Il tempo nel quale ci riportano Massimo Fini e Giancarlo Padovan con il loro meraviglioso racconto del football che non c’è più, intessuto di memorie e di scintillanti imprese, ma anche di miserie sportive: Storia reazionaria del calcio (Marsilio, pp.263, € 17). Un libro che consiglio vivamente di leggere quasi come antidoto alla mercificazione sportiva per tuffarsi in un mondo che fa parte integrante e non secondaria della nostra identità collettiva. Non è un libro sul calcio, asseriscono gli autori, ma sullo specchio delle trasformazioni sociali di cui il calcio è la emblematica rappresentazione. “Il ruolo che nel calcio hanno assunto economia e tecnologia – scrivono – non è che il riflesso di una società che tende ad annullare l’uomo in loro favore, ma anche l’enfasi che pervade il vasto mondo del calcio, a cominciare dai telecronisti e dai talk, non è che il riflesso di una perdita delle proporzioni e del senso della misura che permea la nostra società, soprattutto in politica, ma anche in qualsiasi altro settore che abbia un rilievo pubblico e che si insinua persino nella nostra vita privata”.
È così che Fini e Padovan c’introducono ad una lettura del fenomeno calcistico servendosi tuttavia della memoria, la loro ovviamente, ma anche di quella di generazioni che stanno scomparendo a beneficio, se qualcuno volesse indagare a fondo del “più bel gioco del mondo”, della “scoperta” di un fenomeno che ha qualcosa in sé di eccezionale e di mitico – diciamolo pure – che non può essere ridotto a merce di scambio, a puro e semplice “mercato” per regolare il quale di frequente interviene persino la politica con le leggi ed i regolamenti.
“Il calcio – scrivono – ha cominciato a cambiare quando le grandi organizzazioni che lo presiedono (FIFA, UEFA e, in generale, le federazioni continentali) hanno preteso di trasformarlo da gioco a prodotto e gli spettatori da tifosi sono diventati clienti sempre più paganti ed esigenti di una rappresentazione pretestuosamente e ossessivamente definita spettacolo”. L’intento scoperto è stato quello di fare del calcio un affare rimuovendo perfino regole che si ritenevano eterne e “modernizzandolo” al punto di farlo diventare irriconoscibile rispetto a come era stato pensato e “sistematizzato”. La tecnologia poi ha fatto il resto.
Perciò la narrazione che propongono Fini e Padovan può a ragione definirsi “storia reazionaria” in quanto intessuta di frammenti di socialità che ne spiegano la valenza culturale.
Un tempo la divinità assoluta che presiedeva al gioco del calcio era la Passione. Oggi è l’Economia. Una differenza non da poco. Che fa del calcio contemporaneo qualcosa di molto diverso da quello di una volta quando i campioni o i loro gregari erano davvero gli eroi degli stadi, e spesso venivano identificati come le bandiere delle squadre di appartenenza, mentre adesso non si fa in tempo a vederli con una casacca addosso per scoprire qualche settimana dopo che ne indossano un’altra, e questo accade anche durante lo svolgimento del campionato, dopo il cosiddetto “mercato invernale”.
Un racconto sostanzialmente filosofico quello di Fini e Padovan necessariamente intessuto, vista la materia, delle gesta, dei fasti e dei nefasti di atleti e dirigenti, tifoserie e giornalisti. Sicché il libro è ricco di materiali di riflessioni sui cambiamenti epocali, ma anche di sentimenti e di passioni, di leggendarie imprese e di poco commendevoli comportamenti.
Gli autori non rabberciano niente dietro un vago senso del pudore. Mettono in evidenza come la società ossessionata dal denaro e vittima dell’invasività tecnologica (la moviola prima, la Var poi ed altre diavolerie supportanti vacue discussioni) condizioni il calcio fino a svilirlo attraverso ridicole, ma ben remunerative scuole calcio (noi eravamo affezionati alla piazzetta, all’oratorio e ai campetti ricavati nelle aree brulle di paesini e città). Sottolineano come la indecente “spremitura” di uno sport amato abbia indotto a vere e proprie overdose di calcio propinate dalle televisioni e a cui le società sono ben liete di dare il loro interessato consenso inventandosi i tornei più disparati, perfino d’estate: lo scopo sono i diritti pagati a caro prezzo cui si sovrappongono i massicci inserti pubblicitari. Una nevrosi, dicono Fini e Padovan, che sta contagiando perfino i campionati minori, i Paesi dai quali immaginavamo anni fa che potesse venire la rigenerazione calcistica, segnatamente quelli africani e asiatici da dove, invece, come dimostra la politica sportiva della Cina, soltanto stipendi faraonici fanno parlare di uno sport che fatica a decollare: se ne servono campioni in disarmo per raccogliere gli ultimi spiccioli (si fa per dire) di un’onorata carriera.
Eppure nei nostri occhi, complici gli autori di questo intenso e “necessario” libro è riapparsa la bellezza divina della “finta”, il cui elogio è stato tessuto in un volumetto assai gradevole da Olivier Guez (Elogio della finta, Neri Pozza), che ci ha riportato alle immagini sbiadite del grandissimo Garrincha, l’ala destra brasiliana che tra il 1958 e la fine degli anni Sessanta ci ha fatto sognare, per il quale il colpo ad effetto, sfruttando una sua infantile malattia che gli aveva accorciato appena una gamba, era il miracolo dal quale scaturivano le prodezze di Pelé, Didì e Vavà. E poi di Omar Sivori, il fromboliere argentino della Juventus e del Napoli, il cui genio ha trascinato migliaia di tifosi da una squadra all’altra soltanto perché il suoi piede e la sua intelligenza attendevano intere difese. Per non parlare di Maradona le cui armonie ancora ascoltiamo quando il noioso e stucchevole tiki taka rischia di farci addormentare.
Tutto è cambiato negli ultimi decenni. Il football è diventato un’altra cosa. Continua a raccogliere sterminate masse di appassionati, soprattutto fruitori di spettacoli televisivi finanziati dai diritti miliardari, come si diceva, che segnano avventure e disavventure di società calcistiche, ma i giovanissimi soprattutto non si formano più come possibili protagonisti in quelle palestre di spontaneità che erano rettangoli o quadrati sbilenchi, segnati da poche cose raccolte qua e là per delimitare le porte e qualche volta gli angoli.
Nell’improvvisazione nascevano gli “eroi” che occupavano le menti ed i cuori di fanciulli ed adulti. Le scuole calcio impongono a genitori perlopiù abbacinati dal mito di un successo a portata di mano per i propri figli, regole e comportamenti che il mondo dei bambini non capisce e mal sopporta. Si fa credere, dall’alto di business dalle dimensioni inimmaginabili fino a pochi anni fa, che basta frequentare una di queste scuole che spuntano come funghi soprattutto nelle grandi città, per avere concrete possibilità di affermazione. All’esoso prezzo della sottrazione della felicità ad adolescenti che vorrebbero guadagnarsi il loro effimero, ma quanto radioso, momento di gloria, come accadeva prima che il calcio diventasse un’industria, divertendosi, dispiegando il naturale entusiasmo. Costretti, come se fossero adulti in miniatura, a studiare schemi e tattiche, li si fa rinunciare alla gioia di rincorrere un pallone da mettere in rete perché prigionieri di regole che non formano, ma intristiscono. Osservateli nelle patetiche competizioni a cui danno vita: non hanno la gioia dipinta sui volti, lanciano sguardi preoccupati a manipolatori di coscienze, ma anche di membra in formazione, cercando approvazione o schivando plateali disapprovazioni che finiscono per condizionarli. Macchinette inceppate avvolte in improbabili divise copiate dai grandi club…
E le suggestioni che alimentano i talk show televisivi offrono perfino ai più sprovveduti in materia la possibilità di ergersi (tutt’altro che bonariamente, spesso) a esperti inossidabili. Ricordano Fini d Padovan: “In un tempo poi non tanto lontano le cose andavano così: il lunedì mattina se ne parlava in ufficio o in fabbrica, a Milano c’era l’eterna polemica tra bauscia e cacciavit, interisti e milanisti… E la cosa finiva lì. Si riprendeva il sabato quando c’era da giocare la schedina non ancora esautorata dal gioco on line”. Romanticismo? Perché no. Le nostre domeniche erano scandite da partite in simultanee. Oggi bisogna appuntarsi su una agenda quando gioca chi dal momento che i campionati sono dilatati dal venerdì al lunedì e tenendo conto che le Coppe europee si disputano dal martedì al giovedì. Una overdose difficile da sopportare. A tutto vantaggio dei padroni del sport che naviga tra procuratori, agenti, procacciatori di talenti e borse finanziarie. Gli stadi sono lontani o, almeno per come noi li percepiamo, puramente virtuali.
Un altro calcio, un’altra epoca ci rammentano la storia “reazionaria” di Fini e Padovan. Quella degli eroi della domenica, dei sognanti pomeriggi invernali nei quali si consumavano le attese della settimana. E di epiche squadre e di irripetibili frombolieri di quello che davvero era il gioco più bello del mondo.
IL RICORDO DEL GRANDE TORINO
Ricordiamo una tragedia per dire di un mito collettivo che ormai fa parte del nostro bagaglio identitaria. Settant’anni fa scompariva il Grande Torino schiantandosi a Superga dopo una trasferta a Lisbona. È stato adeguatamente ricordato il tragico anniversario. Ma pochi si sono soffermati sulla forza comunitaria che da quella squadra sprigionava. Era una maglia che accomunava grandi uomini (molti poco più che ragazzi), ma intrisa della fede laica e giocosa di chi intende la competizione non come l’arrogante espediente per prevalere più o meno fraudolentemente sugli altri, ma come espressione di lealtà, di coraggio, di forza, di reazione davanti alle difficoltà (e quanti ne avevano quei granata entusiasti e generosi…). Ho ritrovato tutto questo e molto altro ancora, nel libro di Matteo Matteucci e Franco Ossola, Il Grande Torino. Storia illustrata di una squadra leggendaria (Minerva, pp.215, €19).
È un prezioso omaggio a Valentino Mazzola ed ai suoi compagni, ma anche una riflessione per immagini, che accompagnano i testi, su una storia davvero “reazionaria” (nel senso di reazione al sentimento comune odierno che nutre il gioco del calcio), irripetibile, gloriosa e tragica. Come un’antica rappresentazione greca. Scrive Ossola nella premessa: “Non avevano dubbi gli antichi e gli eroi in particolare: una vita breve, ma intensa, una vita colma, densa di avventure e di conquiste, una vita che suscitasse ammirazione, memoria perenne, non poteva in alcun modo essere barattata con un’esistenza piatta, comune, anonima, per quanto generosa nella sua durata. Quel che contava era essere ricordati, evitare il limbo dell’oblio, della dimenticanza”.
Gli uomini del Grande Torino hanno rinnovato l’antico fasto. E sono con noi. Nel calcio che amiamo. Nell’avventura di gesti atletici che li hanno resi immortali. Non c’è mercato o diavoleria tecnologica che possa affievolirne il ricordo.