Dobbiamo a Benedetto Croce l’introduzione in Italia del pensiero e dell’opera di Georges Sorel (1847-1922). Per quanto distante sul piano teorico e della prassi politica dall’ideologo francese, il filosofo italiano ne colse la “vicinanza” sia per quanto concerneva la sua critica al marxismo che per la dirittura morale esemplificata in una vita concentrata nello studio e nella comprensione della modernità – diremmo oggi – senza lasciarsi trascinare dalle mode e dalle utopie in voga all’epoca. Sicché l’opera maggiore di Sorel, le Réflexions sur la violence (1906), grazie a Croce potè apparire in Italia ed influenzare decisamente gli insofferenti del marxismo scolastico, a cominciare dai sindacalisti rivoluzionari dei quali divenne il “mito” assoluto, mentre anche Lenin e Mussolini si abbeveravano alla sua dottrina.
Sorel riconosceva che mentre per Marx il socialismo era “una filosofia della storia delle istituzioni contemporanee”, a lui gli appariva come “una filosofia morale” e “una metafisica dei costumi”, ma anche “un’opera grave, temibile, eroica, il più alto ideale morale che l’uomo abbia mai concepito, una causa che si identifica con la rigenerazione del mondo”. I socialisti, dunque, non avrebbero dovuto formulare teorie, costruire utopie più o meno attraenti, poiché “la loro unica funzione consiste nell’occuparsi del proletariato per spiegare ad esso la grandezza dell’azione rivoluzionaria che gli compete”.
“Il socialismo – sosteneva – è diventato una preparazione delle masse impiegate nella grande industria, le quali vogliono sopprimere lo Stato e la proprietà; ormai non si cercherà più il modo in cui gli uomini si adatteranno alla nuova e futura felicità: tutto si riduce alla scuola rivoluzionaria del proletariato, temprato dalle sue dolorose e caustiche esperienze”. Il marxismo, dunque, altro non era per Marx che una “filosofia delle braccia”, mentre il suo destino “ tende sempre più a configurarsi come una teoria del sindacalismo rivoluzionario – o meglio come una filosofia della storia moderna nella misura in cui quest’ultima subisca il fascino del sindacalismo. Risulta da questi dati incontestabili che, per ragionare seriamente del socialismo, bisogna prima di tutto preoccuparsi di definire l’azione che compete alla violenza nei rapporti sociali di oggi”.
Ecco: fu la suggestione di una teorica della storia moderna ad avvicinare Croce a Sorel al quale riconosceva che “a ragione dell’indeterminatezza che c’è nel pensiero del Marx circa l’organizzazione del proletariato, le idee di governo e di espediente si siano insinuate nel marxismo, e negli ultimi anni si sia a questo modo compiuto un vero tradimento allo spirito stesso, sostituendo ai suoi principi genuini “un miscuglio di idee lassalliane e di appetiti democratici”… Tutti i consigli che il Sorel rivolge agli operai, li compendia in tre capi, ossia: circa la democrazia, di non correre dietro all’acquisto di molti seggi legislativi, che si ottengono col far causa comune coi malcontenti di ogni sorta; di non presentarsi mai come il partito dei poveri, ma come quello dei lavoratori; di non mescolare il proletariato operaio con gli impiegati dalle amministrazioni pubbliche, e di non mirare a estendere il demanio dello Stato; – circa il capitalismo di respingere ogni provvedimento, favorevole che sembri per il momenti agli operai, se porti a infiacchire l’attività sociale; – circa al conciliatorismo e alla filantropia, di ricusare qualsiasi istituzione, che tenda a ridurre la lotta di classe a rivalità di interessi materiali; ricusare la partecipazione di delegati operai alle istituzioni create dallo Stato e dalla borghesia; rinchiudersi nei sindacati, ossia nelle Camere di Lavoro, e raccogliere intorno ad esse tutta la vita operaia”.
La moralità rivoluzionaria – che superava il marxismo – era tutta qui, per come Croce la sintetizzò nelle Conversazioni critiche.
Gli fece eco, qualche tempo dopo, un giovane scrittore di cose politiche destinato a diventare a suo modo un intellettuale acuto ed un grande giornalista, direttore del Messaggero, del Secolo del Resto del Carlino, del Corriere della Sera”: Mario Missiroli (1886-1974). Fu questi un soreliano della prima ora del quale qui si pubblica un saggio del 1931 apparso sulla rivista “Politica” fondata e diretta da Alfredo Rocco e Francesco Coppola: L’ultimo Sorel, affascinante interpretazione dell’ideologo francese dal quale rimase soggiogato, come tanti altri, perché il post-marxista francese intendeva la rivoluzione del proletariato coniugata con valori spirituali che sfuggivano al filosofo di Treviri, sintetizzati magnificamente da Pierre Andreu nel saggio Sorel il nostro maestro. I due libri che danno lo spunto a Missiroli per parlare di Sorel apparvero in Francia nel 1928 e nel 1929, dunque dopo la morte del pensatore. E fu allora che cominciò la sua rivalutazione in patria, mentre in Italia, a parte Croce, se ne era quasi persa la memoria e gli stessi ambienti intellettuali vicini al fascismo non erano inclini a rivedere le posizioni del teorico francese poiché l’ultimo Sorel, appunto, beva mosso più d’una critica ai suoi epigoni che erano transitati nel fascismo dimenticandone la lezione. Perfino questi sindacalisti rivoluzionari, divenuti “si sindacalisti nazionali o fascisti, mostrarono di non tenerlo in gran conto.
Il direttore della rivista “Politica”, Francesco Coppola, pur ospitando il saggio di Missiroli, ci tenne a mettere le mani avanti e in una nota finale scrisse: “Ho volentieri pubblicato – e non solo per i suoi molti ed evidenti pregi – questo saggio di Mario Missiroli, quantunque io dissenta dal giudizio che in esso è dato – e più ancora che da esso emerge – su Giorgio Sorel; quantunque, cioè, io non di Ida l’ammirazione profonda di Missiroli per Sorel e tantomeno la sua intima simpatia per il temperamento intellettuale di lui, creda anzi che Giorgio Sorel non sia da considerare un ‘grande pensatore’“. Viva la sincerità. Coppola aveva altre preferenze, tuttavia mostrando grande liberalità pubblicò integralmente quel saggio in anni piuttosto difficili per Missiroli che non aveva precisamente un buon rapporto con Mussolini, tanto da aver duellato con lui uscendone malconcio, ferito ad una mano…
Tuttavia il saggio si presta a molte interpretazioni, ma ripropone in nuce il lascito di Sorel, quello di un rivoluzionario che trova le ragioni della conservazione dell’antico raggio storico- culturale europeo che non sempre le rivoluzioni nazionali avevano saputo interpretare. E tra le righe ritornano i vecchi assiomi soreliani sui quali Missiroli richiamava l’attenzione in vista di una discussione che venne meno. E questo non venne compreso.
Sorel nutriva e manifestava grandi ambizioni che avrebbe trasfuso nella sua “lezione” rivoluzionaria: combattere l’indifferenza in materia di morale e di diritto, lottare contro l’utilitarismo, iniziare il popolo alla vita eroica. “Saremmo felici – scriveva nel 1907 nel Procés de Socrate – se arrivassimo ad accendere in qualche animo il sacro fuoco degli studi filosofici e a convincere qualcuno dei pericoli che corre la nostra civiltà a causa dell’indifferenza in materia di morale e di diritto”.
Insomma, soltanto un movimento operaio eroico e puro secondo Sorel può impedire che il mondo scivoli verso la decadenza, come osservò Andreu, “allontanando ogni influsso democratico e borghese (parlamentari, funzionari, avvocati, giornalisti, ricchi benevoli), respingendo ogni concetto di compromesso con i padroni e assicurandosi piena autonomia di azione”.
Questa visione della lotta politica e sociale portò Sorel vicino all’Action française di Charles Maurras, costituendo una feconda ibridazione che avrebbe segnato i destini di tutti i movimenti rivoluzionari non marxisti, sia francesi che europei. Un accostamento che diviene inequivocabile nel 1910, precisamente il 14 aprile, quando sul giornale “Action française” appare un articolo di Sorel singolarmente ed esplicitamente intitolato “Le réveil de l’ame française, le Mystère se la Charité de Jeanne d’Arc”, e nella prima pagina del giornale si ritrovano riuniti Charles Maurras, Charles Péguy, Georges Sorel che dagli esponenti dello stesso movimento viene definito “eminente filosofo” si trova a proprio agio in una tale compagnia e segna così il distacco radicale dal vecchio marxismo e dall’impotente socialismo, ma anche da tutto l’armamentario illuministico. E scrive: “Siamo giunti alla convinzione che l’astensione dalla lotta contro la democrazia equivale alla rinuncia di ogni speranza di sopprimere le menzogne che impediscono ai nostri contemporanei di conoscere bene il valore delle cose. È per questo che ci rivolgiamo a coloro che hanno capito la vanità di queste declamazioni democratiche, perché ci aiutino a condurre a buon fine l’opera che abbiamo intrapreso”, così in una lettera a Georges Valois, il più brillante dei “Camelot du roi”.
Naturalmente, rifiutando i valori borghesi rifiutava la guerra borghese. E tale il conflitto apertosi fragorosamente nel 1914 gli appariva, tanto da scrivere a Benedetto Croce, suo mentore in Italia: “Gli avvenimenti mi schiacciano; sento che stiamo per entrare in un’epoca ancor più nuova di quella della Rivoluzione… L’Europa intera si è impegnata a rinnegare ciò che le restava delle istituzioni amate da Renan. I politicanti giacobini, i finanzieri e i gaudenti delle grandi metropoli non trovano alcuna forza vitale che li rimproveri delle loro bassezze… Stiamo per vedere nuovamente qualcosa di simile alla guerra di Giudea; chi sarà il poeta, lo storico o il filosofo di questa tremenda catastrofe… Sono un uomo del passato, non più nulla da dire a uomini che sono capaci di affermare i loro principi giacobini; mi sembra che Proudhon, negli ultimi tempi della sua vita, debba aver avuto sensazioni simili alle mie”.
Sorel era diventato un conservatore. Lo spettacolo francese ed europeo lo deprimeva. Non vedeva più nessuno. Pochi erano gli amici con i quali scambiava qualche lettera, a cui confidava la propria amarezza. I nuovi rivoluzionari non erano degni della sua lezione nonostante, almeno in Italia, continuassero a venerarlo. Scriveva a poche persone: a Benedetto Croce e a Mario Missiroli che accompagnavano verso la fine “l’ultimo Sorel”. Missiroli pubblicava i suoi articoli sul “Resto del Carlino” (poi li riunì in due volumi: L’Europa sotto la tormenta e Da Proudhon a Lenin). Solo, malandato e povero si spense il 27 agosto 1922. La sua camera ardente, raccontò, Daniel Halévy, era spoglia, la bara coperta da un drappo nero, senza una croce, era posata su un semplice treppiedi, nessuno lo vegliava, una fiamma si consumava lentamente.
L’uomo che aveva incendiato l’Europa non ebbe neppure il cordoglio di chi tutto gli doveva. E lasciava una delle opere più imponenti, dalle Riflessioni sulla violenza a Le illusioni del progresso e Le rovine del mondo antico: un patrimonio al quale non si finirà mai di attingere cercando le ragioni della decadenza di un mondo e le delusioni di rivoluzioni che hanno prodotto mostruosità infinite.
Tempo prima aveva scritto, forse preconizzando la sua fine: “Siano maledette le democrazie plutocratiche che affamano la Russia: io non sono che un vecchio la cui vita è minacciata dal benché minimo incidente, ma prima di scendere nella tomba, vorrei vedere umiliate le orgogliose democrazie borghesi, oggi cinicamente trionfanti”.
Gli riuscì al vecchio rivoluzionario divenuto, suo malgrado e forse non dispiacendosene, conservatore, come s’è detto. Ed in eredità lasciò un patrimonio di idee che leggendo oggi il saggio devoto e splendido di Missiroli, sul quale si è accumulata la polvere per ottantotto anni, ne comprendiamo l’incorruttibile essenza contro la quale neppure il tempo nulla ha potuto.