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Più prevenzione per guarire il sistema sanitario. Parla Giuseppe Curigliano (Ieo)

sanitàConflitto di interessi, ricerca, sperimentazione, innovazione, medicina di precisione e migrazione sanitaria. Questi alcuni dei temi affrontati in una intervista con Giuseppe Curigliano, dell’Istituto europeo di oncologia (Ieo), sentito nell’ambito del progetto “In scienza e coscienza”, nato dalla collaborazione fra Fondazione Roche e Formiche, con l’obiettivo di interrogarsi – e interrogarci – su diverse questioni. Ad esempio, sul dibattito in merito alla libertà prescrittiva del medico e ai vincoli economici imposti dalla limitatezza delle risorse e dalla necessità di Regioni e aziende ospedaliere di gestire il contenimento della spesa sanitaria: come bilanciare le migliori cure con la sostenibilità finanziaria?

In scienza e coscienza, che è il nome che abbiamo deciso di dare a questo progetto, rappresenta uno dei principi fondanti della professione medica. Lei crede che oggi questo valore sia pienamente rispettato, o vi sono delle minacce alla piena soddisfazione dello stesso? Se sì, quali?

Ritengo che la principale minaccia al principio di scienza e coscienza sia il conflitto di interessi. Talvolta i medici possono incorrere in condizionamenti esterni, spesso legati ai buyer, e non per forza economici, ma anche connessi al desiderio di fama e di carriera scientifica. Nel lavoro di medico e ricercatore gli interessi primari sono la salute del paziente, la credibilità dei risultati di uno studio clinico e l’oggettività nella presentazione dei dati di questo studio. Esistono però altri interessi che possono influenzare il giudizio e le scelte di un medico, in primis quelli economici, oppure il desiderio di prestigio e visibilità per fare carriera. Né l’uno né l’altro sono interessi illegittimi in sé, ma lo diventano nel momento in cui acquisiscono troppo peso nell’influenzare le scelte terapeutiche o l’interpretazione dei dati di uno studio. Per capire come questi interessi possono entrare in gioco nelle sperimentazioni, va spiegato che ogni studio clinico che testa un farmaco o un dispositivo nella pratica clinica, con lo scopo di verificarne sicurezza ed efficacia, ha un suo costo, che è regolato da un contratto tra l’azienda farmaceutica, l’istituzione e l’investigatore che lo conduce. Il rimborso di questo costo deve coprire tutte le spese necessarie a supportare lo studio: esami radiologici ed ematici, ricoveri, gestione amministrativa e così via. Spesso, però, sono previsti rimborsi economici anche per l’investigatore. Il tipo di rimborso può essere diretto, o indiretto (per esempio viaggi per la partecipazione a congressi, sostegno alla ricerca, supporto a studi di natura accademica). Le istituzioni scientifiche di alto profilo, come quella in cui opero, non concedono rimborsi agli investigatori, e utilizzano gli eventuali fondi residui stanziati da un’azienda per una certa sperimentazione, per finanziare quegli studi accademici che il mercato farmaceutico non ha interesse a condurre. Per esempio, quelli dedicati a popolazioni con malattie rare, oppure a quesiti di rilevanza clinica in soggetti portatori di patologie concomitanti – sempre più numerosi – che li rendono non eleggibili per uno studio specifico. Il paziente deve essere informato di questo: quando aderisce a una sperimentazione deve sapere se l’investigatore coinvolto ha un beneficio economico o no, e se il centro a cui appartiene utilizza i fondi dello studio per coprire le spese dei pazienti arruolati, destinando eventuali fondi rimanenti a attività di ricerca no-profit. Esiste, quindi, una soluzione per risolvere ogni eventuale conflitto di interesse: dichiararlo, cioè spiegare al paziente quanto e come un’azienda finanzia la sperimentazione clinica, a cui gli si propone di aderire. Questo è il modo migliore per tutelare la salute di un paziente e allo stesso tempo sviluppare una ricerca clinica rigorosa e veritiera nei suoi risultati. La soluzione c’è, ed è semplice. Dichiarare sempre il conflitto di interessi quando presente.

Bilanciare innovazione e sostenibilità finanziaria non è semplice. Quale può essere il punto di equilibrio fra questi due aspetti, e a chi spetta individuarlo?

A chi governa la sanità, e dunque a chi prende le decisioni di programmazione politica sanitaria. L’innovazione va sempre sostenuta quando è in grado di aumentare la sopravvivenza dei pazienti o di migliorarne l’outcome, soprattutto in malattie rare dove non esistono alternative terapeutiche.

Ma come fa la politica, che opera a livello normativo, a prendere decisioni che incidono poi su chi opera, a livello pratico, fra le corsie dell’ospedale?

Le decisioni in materia sanitaria non entrano nel dettaglio, ma delineano scelte di politica sanitaria. Per cui se si decide, come scelta di politica sanitaria, di investire in innovazione, allora chi governa deve reperire risorse di sostenere tale scelta. Investire in innovazione significa fare scelte a lungo termine con investimenti pluriennali.

E i governi passati l’hanno fatto?

Devo dire di sì. C’è questa tendenza a dire sempre che va tutto male, ma quando l’innovazione è arrivata in campi particolarmente rilevanti, parlo ad esempio delle Car-T Cell, dei farmaci antiretrovirali o, ancora, di quelli per la cura dell’epatite B o C, sono tutti stati introdotti rapidamente, dimostrando alta sensibilità per i pazienti e una chiara posizione a favore di un intervento finanziario per sostenere l’investimento in innovazione. Il problema, piuttosto, riguarda il tempo “perso” per la contrattazione dei prezzi. Bisogna chiedersi, in questi casi, quante vite abbiamo perso nel tempo trascorso fra lo sviluppo dell’innovazione e l’accesso dei pazienti alla stessa. Questo, probabilmente, potrebbe rappresentare un parametro valido per valutare l’efficienza del sistema politico in ambito sanitario. È altrettanto vero che ci deve essere una adeguata contrattazione sul prezzo tale da non gravare sui costi di gestione di altri settori della sanità. Il modello nazionale del cost-sharing introdotto dall’Agenzia ttaliana del farmaco è uno dei più innovativi al mondo.

In medicina la ricerca può avere ricadute positive sia sulla salute del cittadino che sulla spesa sanitaria. Investire in tal senso, secondo gli ultimi dati, può garantire risparmi sul lungo termine in termini di assistenza sanitaria e di previdenza sociale. Lei crede che manchi una visione di lungo periodo in Italia?

Io credo che ormai i pazienti metastatici vivano sempre più a lungo, per cui nella programmazione sanitaria di lungo termine bisogna tener conto del fatto che se la sopravvivenza di un malato oncologico prima era di pochi mesi, ora arriva anche a diversi anni. Questi pazienti, quindi, non solo devono ricevere terapie costose per lunghi periodi, ma anche un’assistenza sanitaria adeguata. Ma non è questo il punto… Credo invece che manchi una visione di lungo periodo nell’ambito della prevenzione, ove non si fa abbastanza. I costi, e i costi non necessari in particolar modo, nella nostra sanità dipendono prevalentemente da malattie che curiamo ma di cui avremmo potuto evitare l’insorgenza. Credo vi sia un investimento insufficiente, sia a livello di programmazione sanitaria che in termini di finanziamenti, nell’ambito della prevenzione. Cambiare questo processo, investendo di più in tal senso, anche a partire dalle scuole, diminuirebbe notevolmente i costi della sanità. Dobbiamo fare un cambio radicale di mentalità shiftando dalla “sick care” alla “health care”

Parliamo ora di diagnosi e medicina di precisione. Qualora un medico si trovasse dinanzi a strumenti di diagnosi avanzati e sofisticati tali da identificare patologie per le quali, però, le terapie non siano disponibili, quale comportamento dovrebbe avere?

Questa è una domanda molto interessante. Abbiamo sempre più accesso a tecnologie di sequenziamento del genoma, ma spesso, poi, scopriamo che il tumore presenta alterazioni molecolari che richiedono trattamenti off label. Per cui bisogna avere sempre come riferimento la evidence based medicine, potendo così accertare di impiegare le risorse per trattamenti che, seppure off label, hanno evidenza scientifica della loro efficacia. Il processo di approvazione dei nuovi farmaci ha subito negli ultimi anni una accelerazione legata alla capacità dell’azienda farmaceutica di disegnare trial clinici in popolazioni selezionate di pazienti, massimizzando il beneficio clinico e spesso limitando le tossicità. L’applicazione rigorosa di Magnitude of clinical benefit scales e una profonda interazione con il mondo scientifico e con l’evidenza che emerge dall’analisi dei big data dovrà costituire un nuovo strumento di azione per l’Agenzia nazionale del farmaco per rendere il sistema sanitario nazionale sostenibile. La mia idea dovrebbe fondarsi sui seguenti pilastri: personalizzazione dell’assistenza sanitaria; adozione di nuove tecnologie genomiche e di imaging innovativo, al fine di incrementare la conoscenza degli individui, del loro stato di salute e di malattia; sviluppo e integrazione di una prevenzione personalizzata, come approccio complementare alle classiche pratiche esistenti in sanità pubblica; potenziamento delle capacità computazionali ed il supporto delle piattaforme di intelligenza artificiale al fine di generare grandi quantità di dati (big data) da utilizzare per il progresso della sanità e di altri settori. Su quest’ultimo settore l’Aifa è forse uno degli enti regolatori più avanzati al mondo con la disponibilità di un enorme registro di File F che, se interrogato, disporrebbe del più esteso set di big data per studiare la cost-effectiveness di molti trattamenti.

Cosa suggerirebbe alla politica per il futuro della sanità e per la salute dei cittadini?

Il consiglio più importante che darei è quello di orientarsi sempre verso il Servizio sanitario pubblico, in cui credo molto. Il nostro sistema rappresenta un esempio virtuoso per tutto il mondo, ma bisogna iniziare a pensare allo sviluppo di centri di eccellenza di terzo livello. Non è possibile garantire un alto livello di specializzazione per ogni patologia in ogni singolo ospedale. Per cui, una strategia vincente potrebbe essere quella di garantire un livello basico di intervento per ogni centro ospedaliero periferico, creando però dei centri specializzati regionali in grado di offrire la massima assistenza nei singoli ambiti.

Lei crede che questo potrebbe generare un’inversione di tendenza negli ospedali poco virtuosi, che causano quella migrazione sanitaria di cui oggi si parla molto?

Perché no… In questo modo i singoli centri potrebbero concentrarsi sulla qualità degli interventi basici, lasciando ai centri specializzati l’onere di occuparsi dei casi più specifici. Mi piace molto, ad esempio, la campagna “Io mi curo al sud”, promossa dalla Campania, proprio per scoraggiare la migrazione sanitaria quando non necessaria. Ma questo è possibile proprio perché la Campania vanta centri di eccellenza che possono garantire gli stessi livelli di assistenza di alcuni centri del nord ma, devo ammettere, questo discorso non vale per molte altre regioni. Ritengo anche che la medicina stia cambiando molto rapidamente e che paese si trovare nelle condizioni di delineare le modalità con cui l’innovazione nel settore dello sviluppo dei nuovi farmaci si debba innestare nel Servizio sanitario nazionale  negli ambiti della prevenzione, diagnosi e cura, in un’ottica di efficacia (evidence-based) e di sostenibilità (cost-effectiveness) ai fini del miglioramento della salute dell’individuo e della popolazione. La ‘governance’ di tale processo richiederà elevate competenze multidisciplinari che integrino know how in ambito di clinical genomics ed in ambito di sperimentazioni cliniche. Nasceranno delle nuove figure professionali come i physician scientists e queste figure saranno presenti solo in centri ad elevata intensità di cura dove ricerca ed assistenza saranno integrate.


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