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Sanzioni e terrorismo. La doppia morsa dietro le proteste di piazza in Iran

Il bilancio dei morti legati alle proteste popolari iraniane è complicato dalla chiusura praticamente totale delle comunicazioni internet in uscita dal Paese, ma i media internazionali riportano numeri che oscillano oltre i 100; secondo alcune fonti anche 200. È l’esito spaventoso della repressione ordinata dalla Guida Suprema per gestire le dimostrazioni con cui i cittadini iraniani sono scesi in strada a contestare l’aumento improvviso del costo della benzina.

Occasione che ha portato molti a contestare il sistema teocratico, lo stesso Ali Khamenei e il governo, nonché i corpi ad esse legati come i Pasdaran. Gli iraniani chiedono maggiore libertà, vogliono spezzare la morsa ideologica con cui la Repubblica islamica sciita ha tenuto finora a bada le menti dei suoi cittadini. Raccontando per esempio, con una narrazione sponsorizzata dagli uffici e dagli outlet di propaganda, che la necessità di costruire una politica estera egemonica, da potenza regionale, fosse prioritaria. Ora i cittadini chiedono aiuto, perché quella strategia ha innescato le misure sanzionatorie americane (e prima ancora europee) e non ha prodotto alcun frutto. Anzi, le condizioni economiche sono peggiorate.

L’Iran ha una forza poderosa in Medio Oriente. È penetrato in Iraq, dove oggi infuriano le proteste, controllando alcuni partiti-milizia che esercitano potere in parlamento. Lo stesso ha fatto in Libano, attraverso il più fedele dei vassalli, Hezbollah, fino a decidere le più alte cariche dello Stato. Idem in Yemen, altro Paese attraversato da una guerra straziante, dove ha un collegamento diretto, quanto meno sul piano militare e quello dell’alleanza anti-saudita, con i ribelli Houthi, che hanno assunto il controllo dopo aver rovesciato il governo. Infine in Siria, trasformata in una piattaforma militare contro Israele, dopo aver appoggiato la brutale riconquista del paese da parte del regime locale.

Operazioni che sono costate soldi e sangue iraniano, e che non hanno portato alcun beneficio ai cittadini. Anzi. Triplicare il prezzo della benzina – seppur mantenuto a livelli bassissimi, come in tutti i Paesi produttori di petrolio – sarebbe servito a creare sussidi per i meno abbienti. Un intento nobile, ma comunicato male dall’establishment. Tant’è che i cittadini si sono chiesti: non si poteva risparmiare sulla guerra invece di aggravare ulteriormente le condizioni di vita?

Raccogliere quei fondi dai proventi del carburante è invece necessario perché l’economia, potenzialmente in ottima salute e dotata di risorse energetiche tra le più ricche al mondo – è stretta da una doppia morsa. Da un lato i soldi spesi dalla Guida nelle campagne militari e di influenza all’estero. Dall’altra quelli bruciati a causa delle sanzioni statunitensi – tornate operative da quando l’amministrazione Trump è uscita dall’accordo per il nucleare iraniano (Jcpoa), perché non vedeva nel governo di Teheran “lo spirito” giusto.

Ironia della sorte, il maggior numero di morti – secondo le informazioni diffuse da Amnesty International – arriva dal Khuzestan, la regione sud-occidentale affacciata sul Golfo Persico, ricca di petrolio. Dieci giorni fa il presidente Hassan Rouhani aveva annunciato una sensazionale scoperta petrolifera nell’area, che avrebbe aumentato di un terzo le potenzialità produttive iraniano. È là che i soldati di Rouhani stanno sparando contro la folla proiettili, coperti dalla cortina fumogena dei lacrimogeni e quella internazionale dovuta alla chiusura di Internet.

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