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Salvini ha ragione, all’Italia serve un piano d’uscita (modello BoJo). Parola di Sisci

Altro che conciliazione, all’Italia serve un patto di emergenza nazionale. Sul Sussidiario.net Francesco Sisci, saggista e sinologo, afferra la provocazione di Matteo Salvini e la rilancia: per uscire dallo stagno della politica italiana, e smuovere le acque reflue di un governo che si trova in oggettiva difficoltà, il primo passo è sedersi intorno a un tavolo. E poi? Il secondo è stilare una strategia bipartisan, anzi apartitica, per tracciare una road map che dia al Paese una via d’uscita. Dalle crisi bancarie, industriali, sindacali sul piano interno. Dall’irrilevanza geopolitica in Europa e in Nord Africa su quello esterno. Per farlo serve coraggio, dice Sisci. Eppure c’è chi si è già mosso: Boris Johnson, il premier bis del Regno Unito dato per spacciato e uscito trionfante dalle elezioni di mercoledì scorso.

“In Gran Bretagna dopo anni di incertezze oggi è più chiaro. Ci sarà una Brexit morbida, a condizioni più favorevoli alla Ue di quelle negoziate dall’ex premier Theresa May, e Boris Johnson resterà premier cinque anni, a meno di imprevisti”. Non che oltremanica le incognite non ci siano. Una su tutte, quella che incombe sulla “City” di Londra, il cuore pulsante della finanza europea che soffrirà più di tutti il divorzio con l’Ue. Ma nella foschia che attende al varco il Regno Unito almeno Johnson ha un piano: “Vuole trasformare il paese in centro di scambi internazionali, come una specie di super Singapore o Svizzera del mondo. Per questo avrà bisogno di ottime relazioni con Usa e Ue”.

In Italia neanche l’ombra. Tra polemiche sulla Nutella e scissioni dell’atomo interne ai partiti il collasso del sistema Paese scorre inosservato, come i titoli di coda di un film. Nell’apatia generale, la proposta di Salvini è davvero un sasso nello stagno. Giancarlo Giorgetti, numero due della Lega e ponte ideale fra nuova e vecchia guardia, l’ha formulata anche meglio: un governo di unità nazionale per riattaccare i cocci, a cominciare da Ilva, Popolare di Bari, Alitalia, guidato da una figura terza (non un Conte tris), poi ritorno alle urne.

Per carità, dice Sisci, non sfugge a nessuno il perché della tregua salviniana che in queste ore ha mandato su tutte le furie la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni e invece piace non poco al gruppo dirigente di Forza Italia. Qualcuno deve aver spiegato a Salvini che per la Lega far crollare tutto l’edificio ora significa, in caso di vittoria alle elezioni, ereditarne le macerie. Forse Salvini preferisce far morire i Filistei senza Sansone. Poco importa. “Un patto di unità nazionale potrebbe fermare l’erosione in atto della Lega e forse per questo è strumentale. Ma la politica è fatta anche di questo: coincidenza di interessi anche molto parziali con interessi più grandi”.

Tra gli interessi più grandi, si diceva, oltre a fermare l’emorragia del sistema industriale e bancario italiano, c’è quello di riportare il Paese, se non al centro dei sommovimenti geopolitici mondiali, almeno in partita. Nelle aree dove per vocazione l’Italia dovrebbe avere una voce in capitolo tutto tace. Il destino di Libia e Nord Africa, che per definizione sono una priorità per Roma, è ormai in mano ad altre potenze europee, mediorientali, asiatiche. E nel mezzo di un conflitto globale fra Cina e Stati Uniti per niente smorzato da una flebile tregua commerciale l’Italia manca di una collocazione chiara sullo scacchiere internazionale.

È questo il momento di “un grande progetto”. Quello che Johnson, fra mille ostacoli e critiche, vuole mettere in atto per il suo Paese. “L’Italia ugualmente avrebbe bisogno di ritrovare un “destino” che è la sua geografia –  dice Sisci – essere ponte naturale tra Asia, Africa, Europa, tirando dentro l’America. Ciò darebbe impulso al Sud e riporterebbe il Nord Italia a essere centro dell’Europa e non periferia di Francia e Germania”. Forse, conclude il sinologo, Salvini ha davvero fatto centro: il primo passo è mettere da parte le beghe partitiche e realizzare la profondità del burrone cui va incontro il Paese, prima che sia troppo tardi.

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