Fino all’arrivo di alcuni commandos delle unità anti-terrorismo irachene (con in mezzo qualche collega statunitense in forma discreta), le forze di sicurezza dell’ambasciata americana a Baghdad – polizia e uomini di società private locali – sono state l’unico buffer che ha separato la folla dai diplomatici. Il fortino nella Green Zone è stato violato da manifestanti fomentati dalla Kata’ib Hezbollah, gruppo paramilitare sciita etero diretto dall’Iran. Il ponte che divide l’ingresso della sede diplomatica era chiuso da un Humvee iracheno (in funzione anti-VBIED), ma quando i miliziani sono arrivati a ridosso del mezzo, uno di loro ha puntato un mitra alla testa di una delle guardie e gli ha fatto aprire il varco. Da lì la folla s’è lanciata fino a violare il primo livello di sicurezza – quello non ancora protetto dai Marines.
Kataib Hezbollah supporters entering the heavily fortified US embassy reception area where guards would X-ray visitors & take their phones pic.twitter.com/BItD7gcaFJ
— Liz Sly (@LizSly) December 31, 2019
Volevano vendetta, chiedevano che la morte di oltre venti miliziani in un bombardamento Usa di due giorni fa venisse lavata col sangue americano. L’azione condotta dagli F15 dell’USAF tra Iraq e Siria era a sua volta una rappresaglia: gli americani hanno colpito postazioni del gruppo che aveva lanciato una pioggia di missili Katyusha contro la base K1 di Kirkuk. Attacco in cui era rimasto ucciso un contractor civile del Pentagono e feriti quattro soldati statunitensi.
Da mesi l’Iraq è il cuore delle tensioni tra Stati Uniti e Iran. Se gli americani hanno abbandonato l’accordo sul nucleare nel maggio 2018 è stato anche per quella che Donald Trump definì una “mancanza di spirito” legata alla forza con cui i Pasdaran spingevano il rafforzamento delle milizie collegate a cavallo della regione. Un vettore di influenza giocato attraverso gruppi che per Washington e per l’Europa sono entità terroristiche: la Kata’ib Hezbollah irachena, KH, cugina del gruppo omonimo libanese, già nel periodo dell’occupazione dell’Iraq, un decennio fa, era responsabile di attacchi micidiali contro gli occidentali. Da maggio ha ripreso con vigore l’uso dei razzi, lanciati più di una volta contro i palazzi dell’ambasciata americana.
L’episodio di Kirkuk è infine stato la fatidica goccia, quella che il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, aveva avvisato che si sarebbe portata dietro la “risposta decisa” americana. Fu proprio Pompeo, e proprio a maggio (quando era scoccato il primo anniversario dell’uscita statunitense dal Nuke Deal), a rendere chiara la pericolosità della situazione irachena. Aveva fatto saltare all’ultimo minuto un incontro con la Cancelliera tedesca per recarsi a Baghdad e ragguagliare il governo locale su quanto le intelligence statunitensi avevano scoperto: gli iraniani, i Pasdaran, avevano rifornito le milizie collegate in Iraq (tra cui anche la KH) di missili di vario genere, comprese armi balistiche a medio raggio.
Era l’inizio del confronto a intensità medio bassa che ha caratterizzato l’estate nel Golfo Persico. Sabotaggi alle petroliere, azioni di disturbo, l’abbattimento di un drone Usa da parte degli iraniani, missioni israeliane che si erano estese anche al suolo iracheno, perché i Pasdaran avevano iniziato a utilizzare quelle rotte – e la logistica permessa dalle milizie locali – per passare le armi all’altra Hezbollah, quella libanese; armi che poi, per ordine iraniano, dovevano essere utilizzate contro Israele.
Il quadro è ampio e complesso. Trump, impegnato nei soliti tweet contro i Democratici – mezzo ottimo, come noto, per arringare le folle in vista delle prossime presidenziali –, deve aver avuto indicazioni che a Baghdad si stava consumando una vicenda da film e ha shiftato rapido sulla politica estera il solito giro di di cinguettii politici mattutini. “L’Iran sta orchestrando un attacco alla nostra ambasciata”, ha scritto: “Abbiamo risposto con forza e lo faremo sempre. Ora l’Iran sta orchestrando un attacco all’ambasciata Usa in Iraq. Li riterremo pienamente responsabili. Inoltre ci aspettiamo che l’Iraq usi le proprie forze per proteggere l’ambasciata, e questo gli è stato notificato”.
L’ambasciatore Matthew Tueller non è in sede: si diceva che era stato evacuato, ma a quanto pare è fuori per “vacanze programmate” in Iraq. Non è chiaro, ma è evidente che anche per Washington ammettere una sorta di fuga di sicurezza non è il massimo dell’immagine in questo braccio di ferro con l’Iran. Era invece chiaro già che potesse finire così, perché oggi si sono celebrati i funerali dei 25 miliziani uccisi nei raid statunitensi. L’avamposto diplomatico americano è zeppo di personale e di informazioni. Ci sono segreti sulla lotta al terrorismo, ci sono dati sulle missioni di intelligence nell’area, c’è parte della cabina di regia di una presenza regionale che in Iraq da tanti anni trova un punto nodale. L’assedio pilotato dai jihadisti filo-iraniani è una condizione di sicurezza nazionale da Situation Room. E va alla mente che tutta la storia degli ultimi quaranta anni di rapporti tra Usa e Iran è iniziata con l’attacco dei manifestanti khomeinisti all’ambasciata di Teheran – un episodio con tattiche e dinamiche molto simile a quello odierno.
Baghdad ribolle. Da mesi ci sono proteste contro l’ingerenza che l’Iran gioca nel Paese tramite quelle milizie, che si sostituiscono allo Stato e portano avanti un sistema sociale mafioso con cui controllano il territorio – e dunque politica, economia, commerci, interessi – per conto della Repubblica islamica. Che li sostenta e ne infiamma cuori e stomaci a piacimento. Ma anche la presenza americana – cinquemila soldati, quasi altrettanti civili governativi – è da tempo mal sopportata. Nell’area dell’ambasciata si materializzano tutte le criticità di un P5aese in netto deficit di sovranità. Il premier Adel Abdul Mahdi ha ordinato ai manifestanti di lasciare “immediatamente” la zona, ma ha perso punti di credibilità durante le recenti proteste (che hanno fatto oltre quattrocento morti, per opera delle milizie che non tollerano chi gli si oppone). E ora tocca alle milizia sfruttarne le debolezza dando benzina sul fuoco acceso di una contro-protesta.
Sul posto sono arrivati il ministro degli Interni e della Difesa, ma a controllare quei manifestanti è una regia che passa da Teheran come detto. Sullo sfondo si muovono, anche loro brevemente in mezzo alla folla urlante “Morte all’America”, personaggi come il capo dell’Organizzazione Badr, Hadi al Ameri, politico che fa da puntello al governo e che durante le proteste delle scorse settimane era sul punto di mollare, ma è stato richiamato all’ordine dal generale che da anni comanda dall’Iran tutta l’operazione-milizie, Qassem Soulimani.
Davanti all’ambasciata americana c’era anche il leader della milizia Asaib Ahl al Haq, Qais Khazali e il presidente delle Forze di mobilitazione popolare (Pmf), Falih al Fayyadh, l’ombrello che racchiude tutte le milizia – un’organizzazione voluta sia dall’Iran, che ha poi ottenuto un riconoscimento ufficiale per quei combattenti (un ulteriore rafforzamento per le milizie), sia dagli americani stessi perché nel momento in cui quelle forze sono intervenute contro lo Stato islamico in appoggio alle deboli unità governative, gli Usa avevano bisogno che quelli che per prammatica di guerra stavano diventando pseudo-alleati avessero un nome politicamente spendibile.
Fayyadh ha detto che anche le ambasciate di Arabia Saudite, Emirati Arabi Uniti e Bahrein potrebbero essere attaccate prossimamente. Da Riad è stata espressa profonda preoccupazione per quanto successo a Baghdad. Ed è possibile che la miccia innescata continui a bruciare nei prossimi giorni – o ore. L’Iran è in difficoltà, ma per ragioni di sopravvivenza del regime teocratico non può arretrare. Dall’altra parte gli Stati Uniti hanno creato un blocco pronto a rispondere perché è in gioco il controllo geopolitico della regione.
(Foto: Twitter)