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Le tensioni nel Golfo ed il prezzo del petrolio che va su. La lettura di Nicolazzi

Il punto maggiormente critico della vicenda iraniana si chiama Arabia Saudita e potrebbe far esplodere i prezzi. Il motivo? Fondamentalmente nell’età dell’abbondanza di riserve potenziali di idrocarburi, il tema si sposta nettamente sul versante sicurezza delle infrastrutture.

È la riflessione che Massimo Nicolazzi, manager con alle spalle una solida esperienza nel settore degli idrocarburi, (Eni e Lukoil), affida a Formiche.net ragionando sugli sviluppi dell’attacco con il drone che ha eliminato il Generale iraniano Soleimani.

Il prezzo del greggio che sale a 70 dollari al barile è la prima conseguenza economica della crisi tra Iran e Usa?

Sì. Assolutamente esiste un rapporto tra i due fatti, però il dato più interessante per capire al meglio ciò che sta accedendo è il moderno tema della sicurezza. Mentre i prezzi dell’olio salivano, il prezzo delle azioni Aramco scendeva. Fondamentalmente nell’età dell’abbondanza di riserve potenziali di idrocarburi, il tema si sposta nettamente sul versante sicurezza delle infrastrutture.

Esiste a questo punto il rischio di attacchi a siti petroliferi così come accaduto in Arabia Saudita nel settembre scorso?

Sicuramente il mercato sta scontando questo rischio. In una situazione in cui Arabia Saudita e Russia continuano a mentenere picchetti nella produzione per non far sprofondare i prezzi, i prezzi risalgono. Per quale motivo? Appunto perché il mercato affronta il cosiddetto rischio relativo alla disruption delle infrastrutture. Ciò non implica che poi si debbano verificare per forza gli attacchi. Ma il solo fatto che esiste una possibilità influisce nella reazione del mercato, anche perché c’è ancora un’abbondanza di offerta rispetto alla domanda e il prezzo sale per questa ragione.

Alcuni esperti affermano che l’effetto di una crisi geopolitica mediorientale sui prezzi del petrolio potrebbe non essere eccezionale come una volta. È verosimile?

Fino ad oggi è sempre stato verosimile rispetto alle crisi che abbiamo avuto e per come le abbiamo affrontate. Quando c’è stato il bombardamento dei droni a settembre, ho detto di essere stupito dal fatto che il prezzo fosse salito così poco, visto che siamo ben al di sotto dei livelli del 2018 in cui tutto lo scenario era pacifico.

Quale il punto maggiormente critico di questa vicenda allora?

Si chiama Arabia Saudita e potrebbe far esplodere i prezzi. Se il mercato percepisse che la disruption potrebbe interessare una parte consistente della produzione saudita, allora il riflesso potrebbe essere molto forte. Mentre sono sicuro che non lo sarebbe in altri scenari. Due o tre milioni di barili di disruption ce li possiamo permettere.

Cosa è cambiato, rispetto a 20 anni fa, nei mercati petroliferi mondiali? Sono più dinamici e possono tollerare questa perturbazione?

Ci sono alcuni elementi che ci hanno fatto navigare lontano dalla crisi del ’73, in primis la liquidità del mercato nel senso che oggi il petrolio non funziona più a contratti bilaterali o a prezzi contrattati in modo individuale. C’è una fissazione di prezzi sul brent e tutto il resto quotato a sconto. Per cui il prezzo si forma su meccanismi trasparenti, che non vuol dire privi di speculazioni. In secondo luogo per anni abbiamo gridato “al lupo al lupo” sulla fine del petrolio, e oggi la invochiamo come conseguenza della decarbonizzazione e non più come conseguenza dell’esaurimento delle riserve. Siamo eccessivi anche in questo secondo caso. Resta il fatto che c’è un’eccesso di offerta sempre latente rispetto al mercato.

twitter@FDepalo

 

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