Qualora arrivasse una richiesta a tutela del cessate-il-fuoco, la Difesa sarebbe “pronta” a intervenire in Libia con i propri militari. In vista della Conferenza di Berlino di domenica prossima, l’ipotesi è da inserire comunque in un piano di complessivo rafforzamento degli impegni all’estero, in linea con l’idea di rilanciare la postura internazionale del Paese, confermando gli sforzi attuali (Afghanistan compreso) e aumentando la presenza nel Sahel e nello stretto di Hormuz. È quanto emerge dalle parole del ministro Lorenzo Guerini, intervenuto oggi di fronte alle Commissioni Difesa di Senato e Camera per un aggiornamento sulla situazione dei contingenti nei teatri all’estero, alla luce delle turbolenze tra Iraq e Libia. In attesa che venga presentato il prossimo decreto missioni, sono arrivati i primi dettagli sull’attesa ri-organizzazione delle missioni, compresa la ricerca di un maggior coordinamento a livello europeo. Non a caso, dopo l’audizione Guerini ha avuto un colloquio telefonico con l’Alto rappresentante Ue Josep Borrell.
LA CONFERMA DEGLI IMPEGNI
La prima notizia riguarda comunque l’intenzione di “confermare la presenza nei maggiori teatri operativi: Libia, Iraq, Afghanistan e Libano”. Un’intenzione, ha spiegato Guerini alle Commissioni, che risponde a più fattori: la tutela degli interessi nazionali, il rispetto degli obblighi assunti in ambito internazionale, e la volontà di dare risposta alle richieste di assistenza “che sostanziano il ruolo internazionale del Paese”. Tra tutti gli impegni, il più discusso resta quello in Afghanistan, giunto ormai al suo ventesimo anno e considerato dagli esperti il più papabile di riduzione. Eppure, ha detto il ministro, “non è ipotizzabile un’ulteriore riduzione del personale (oggi pari a circa 800 unità, ndr) se non abdicando al ruolo centrale che il Paese ricopre nell’ambito dell’operazione Nato Resolute Support”. Tra l’altro, l’Afghanistan vive “un momento delicato”, che porta la Difesa a dover “tenere fede a quanto convenuto in ambito Nato, cioè il concerto tra tutti i Paesi contributori”, secondo il principio del “in together, out together”.
L’IPOTESI DI INTERVENTO IN LIBIA…
Poi, via libera all’incremento della presenza in aree più vicine ai nostri interessi, a partire dalla Libia, per cui è stato ieri anche il premier Giuseppe Conte a non escludere un invio di militari italiani. Attualmente nel Paese ci sono 240 unità, per lo più impegnate nell’ospedale di Misurata che, nonostante la situazione in evoluzione, non lascia intravedere “minacce dirette al nostro contingente in loco”. Certo, in vista della conferenza di Berlino di domenica prossima, per cui è arrivata notizia (“positiva”) della partecipazione del generale Khalifa Haftar, è opportuno spostare lo sguardo in avanti. “Laddove il processo di pacificazione abbia uno sviluppo positivo – ha detto Guerini – si potrebbe immaginare un intervento internazionale volto a dare solidità alla cornice di sicurezza e per inibire una nuova e ulteriore ripresa delle ostilità sul fronte interno, alimentata dal supporto di Paesi terzi e attori esterni”.
…E IL RUOLO DELL’ITALIA
In questo ambito, “vi sarebbe margine per una possibile rimodulazione dell’intervento nazionale, nell’alveo di un ipotetico e sperato accordo di natura politica, nel rispetto di un’eventuale richiesta di supporto in tal senso rivolto alla comunità internazionale”. Si potrebbe iniziare a “porre un freno al continuo afflusso di armamenti a favore delle fazioni in lotta”. Ma come? Nel modo in cui aveva suggerito su queste colonne il generale Claudio Graziano: riattivando la componente navale della missione europea Sophia, “già operativa – ha notato Guerini – per implementare la risoluzione Onu di embargo”, una funzione che “potrebbe diventare un punto focale dell’operazione”. Per quanto riguarda l’impegno sul campo, ogni dettaglio è “prematuro”, ma “la Difesa – ha assicurato il ministro – sarebbe in grado di garantirlo mantenendo anche i compiti attuali in chiave operativa, congrua con i compiti di monitoraggio e cessate il fuoco”.
DAL SAHEL…
Si guarda poi agli altri scenari di crisi. “Intendiamo incrementare la nostra presenza in Sahel, dove si assiste a una recrudescenza del terrorismo di matrice confessionale” con “effetti interconnessi fortemente allo scenario libico”, ha detto Guerini. L’ipotesi era già stata presentata con le linee programmatiche, incontrando alcune critiche per la necessità di un coordinamento con la Francia, da taluni ritenuto difficile alla luce di interessi divergenti. Il quadro sembra però cambiato. Da Parigi si sono fatte sempre più pressanti le richieste di supporto in un’area grande quanto l’intera Europa, in cui attualmente sono dispiegati 4.500 militari francesi a fronte di una crescente instabilità tra terrorismo jihadista e traffici illeciti. “L’area è fondamentale” anche per l’Italia, ha chiarito Guerini, dissolvendo ogni dubbio sulla collaborazione con la Francia: “Immaginare di intervenire prescindendo da uno stretto coordinamento sarebbe fortemente temerario”.
…ALLO STRETTO DI HORMUZ
La sponda francese potrebbe riguardare anche la missione verso il Golfo Persico. Di fronte alle Commissioni, Guerini ha spiegato l’intenzione di incrementare la presenza italiana nello stretto di Hormuz, “le cui acque rappresentano un interesse strategico per la nostra economia”. Anche tale ipotesi era stata preventivata con il dibattito sulle linee programmatiche. D’altra parte, dalla fine dello scorso giugno la crescente assertività iraniana nella zona ha portato gli Stati Uniti al tentativo di coinvolgere gli alleati su una missione di pattugliamento condiviso. Ha risposto solo il Regno Unito, aderendo all’operazione Sentinel a guida statunitense. Parallelamente, anche la Francia si è fatta promotrice di un impegno simile, con una pianificazione a cui la Difesa italiana, spiegava Guerini a novembre, “sta partecipando ai relativi incontri preparatori”. Allora, si guardava con “predisposizione favorevole l’iniziativa francese, che sembra quella più coerente con la posizione nazionale”.
LA NATO IN IRAQ
Infine, c’è il capitolo Iraq. I rischi di instabilità provocati dalla crisi tra Stati Uniti e Iran non hanno ridotto la validità della missione italiana, che conta attualmente circa 900 militari nell’ambito della Coalizione internazionale di lotta all’Isis. Anzi, proprio l’instabilità potrebbe essere sfruttata dai combattenti dello Stato islamico. È per questo che si potrebbe ripensare l’intervento dei contingenti stranieri, anche alla luce della risoluzione del Parlamento iracheno per la loro rimozione (che tuttavia “non riguarda il personale italiano”, ha spiegato Guerini riportando il colloquio con le autorità irachene). L’idea è che “la Nato possa rappresentare la futura dimensione dalla missione in Iraq”. Attualmente, l’Alleanza Atlantica dispiega circa 500 militari (otto sono italiani) nell’ambito della missione addestrativa approvata al summit di Bruxelles nel luglio 2018. È parallela agli impegni della Coalizione anti-Isis (a cui pure la Nato partecipa). L’ipotesi sul tavolo, è “mutuare il modello Afghanistan”, con un “graduale passaggio di competenze dalla coalizione alla Nato”.