In queste settimane segnate dalla paura e dall’inquietudine, cercando ragioni impossibili da comprendere rispetto a quanto sta accadendo e adattandoci al peggio pur con la speranza di vedere la fine quanto prima di un’epidemia che ha tutti i tratti della pandemia, mi è capitato tra le mani un libro-intervista di Konrad Lorenz realizzato quarant’anni fa per una trasmissione televisiva. Vivere è imparare (Lindau, pp. 104, € 12,50) è il titolo del testo raccolto dal giornalista Franz Kreuzer. Sfogliandolo speravo di trovare qualche motivo che mi aiutasse a comprendere l’uomo di fronte alla sua possibile fine e, dunque, come un etologo si atteggerebbe davanti a tale apocalittica prospettiva. Niente.
Ma la lettura non è stata inutile. Anzi, mi ha rafforzato nella convinzione, maturata fin da giovanissimo quando presi tra le mani i libri dello scienziato austriaco, che, come dice in questo colloquio “dobbiamo cercare di diventare cittadini spirituali del mondo, anzi è proprio questo il presupposto di un governo ragionevole di tutta l’umanità. Se si vuole impedire la sovrapproduzione di beni e gli sviluppi esponenziali che ne derivano, occorre prima creare dei cittadini del mondo”. E noi lo siamo, possiamo diventarlo? Da quanto si capisce mi sembra impresa improba se non utopica. Basta considerare ciò che è piovuto sull’Italia da parte di nazioni “amiche” quando s’è profilata l’invasione del morbo, per renderci conto che la speranza di Lorenz era e resta vana.
“Il mondo è completamente impazzito”, diceva Lorenz. E aggiungeva: “Non solo di giorno in giorno è sempre più brutto, ma anche più cattivo, più immorale. Anche le parole ‘buono’ e ‘cattivo’ sono scomparse dal vocabolario dei mezzi di comunicazione. Non ci sono più i cattivi, ma soltanto uomini che il mondo ha trattato male, e non ci sono più uomini buoni, ma soltanto uomini che sono stati condizionati nel modo giusto, ecc. E non ci si accorge che così facendo si sottrae all’uomo la più fondamentale libertà, cioè la libertà di decidere tra il bene e il male”. Una lezione di etica che quanto più i tempi si fanno oscuri bisognerebbe tenere presente. Vivere, dunque, è imparare. E s’impara anche dalle debolezze e dalle catastrofi, come l’etologia insegna, dalle paure e dall’aggressività, dall’autorità e dalla sua mancanza. Insomma, la scienza “etica” di Lorenz è una scienza per il nostro tempo. Forse per questo messa in ombra da nuove filosofie salvifiche che nel momento in cui si rivelano fragili a spiegare le catastrofi, producono il panico o la migrazione nel nulla.
Quando nel 1973 venne attribuito il Premio Nobel per la medicina e la fisiologia a Konrad Lorenz vi fu una sorta di sollevazione negli ambienti scientifici che non mancò di contagiare anche quelli politici. Il ricercatore austriaco, noto per le sue indagini del comportamento umano attraverso lo studio dell’istinto animale e dell’adattamento ambientale, era ritenuto un fautore dell’antiegualitarismo. Non gli vennero risparmiate accuse anche infamanti, ma nel contempo i suoi saggi di carattere antropologico oltre che quelli strettamente connessi alla sua materia venivano sempre più studiati al fine di comprendere la decadenza che Lorenz denunciava tanto nella sfera intima dell’uomo quanto nel mondo circostante.
Al di là della “demonizzazione”, le opere di Lorenz s’imposero anche in ambito a lui non proprio favorevole soprattutto per merito di editori liberi come Adelphi in Italia che l’anno successivo pubblicò il libro di Lorenz di maggior successo, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, seguito da L’altra faccia dello specchio. In entrambi lo scienziato metteva l’umanità davanti dal suo non proprio luminoso destino determinato dagli squilibri demografici, dall’inquinamento atmosferico, dal depauperamento delle risorse naturali, dalla massificazione del consumi, dall’invadenza della tecnologia fino a criticare appunto l’egualitarismo pervasivo del quale la struttura stessa delle megalopoli era lo specchio più evidente.
Lorenz, dopo i primi “affondi” critici che arrivarono a colpirlo come “nemico della democrazia”, ha conosciuto una lenta, ma inarrestabile rivalutazione al punto che quando di recente qualcuno (com’è costume di questi tempi) ha provato ha scavare nel suo lontanissimo passato, scoprendo che aveva simpatizzato in gioventù, come molti altri intellettuali e non solo, per la parte sbagliata (operazione non dissimile da quella che è stata messa in atto contro Martin Heidegger), non è sembrato opportuno neppure ai più critici di affondare eccessivamente il bisturi in una materia controversa e sostanzialmente poco interessante. Il suo pensiero è certamente più “lungo” delle polemiche postume soprattutto se effettuate contro uno scienziato che non può replicare essendo scomparso nel 1989.
L’etologia, soprattutto grazie a Lorenz, ha dimostrato che le derivazioni della cultura freudo-marxista nel campo dell’antropologia sono state a dir poco fallaci e menzognere. Studiosi come Robert Ardrey, Eibl-Eibsfeldt, Eric von Holst, Karl von Frisch hanno applicato, come lo scienziato austriaco, il metodo naturalistico desunto dall’osservazione del comportamento animale e dei gruppi sociali primitivi o organizzati per asseverare che le comunità tendono a conservarsi secondo schemi certo non collimanti con la visione del “buon selvaggio” di Rousseau. Il realismo dovrebbe far riconoscere che il principio di conservazione è strettamente legato a quello di aggressività e tenendo conto di questo dato naturalistico è possibile costruire aggregati tendenzialmente solidi e ordinati da un principio politico fondato sull’autorità.
Una sintesi di queste idee è racchiusa nella penetrante e brillante Intervista sull’etologia, riproposta da Oaks editrice, realizzata da Alain de Benoist alla fine degli anni Settanta.
Il libro è qualcosa di più di un’intervista pura e semplice. Esso consta di tre parti : la prima è un saggio di de Benoist sull’etologia dalle origini ai giorni nostri, incentrata soprattutto sulla polemica tra gli ambientalisti e gli innatisti; la seconda parte è il colloquio vero e proprio tra l’allora giovane intellettuale francese e lo scienziato; l’ultima è uno scritto di Lorenz significativamente intitolato Patologia della civiltà e libertà della cultura.
Molto opportunamente de Benoist riassumendo il pensiero di Lorenz rileva che mentre i fautori del materialismo pratico vedono nell’uomo soltanto la dimensione biologica e gli spiritualisti lo riducono alla sua dimensione spirituale, per gli etologi egli non è assolutamente unidimensionale, ma è il prodotto di tutte le dimensioni possibili e quindi la creatura più complessa che esista. Da qui alla polemica antiegualitaria il passo è breve. Posto che esistono indubbie differenziazioni nell’uomo e tra gli uomini, Lorenz così si esprime: “L’ineguaglianza dell’uomo è uno dei fondamenti ed una delle condizioni di ogni cultura, perché è essa che introduce la diversità nella cultura. Nella società umana, la divisione del lavoro è fondata su una differenza, un’ineguaglianza dei membri della società. Alla base di questa ineguaglianza vi è una differenza di capacità… Il fatto che siamo diversi è capitale dal punto di vista dei valori. Sebbene si sia diversi, abbiamo gli stessi diritti fondamentali. Oggi uomo ha il diritto di sviluppare le facoltà che sono in lui… Il punto di vista egualitario è completamente antibiologico: gli uomini sono diversi dal momento del loro concepimento”.
È naturale che questa visione si scontri con gli apologeti del pensiero tecnomorfico e pseudo-democratico che ripongono le loro aspettative nel salvifico avvento della tecnocrazia e della massificazione, i pilastri del “pensiero unico”. Lorenz invita a riscoprire il principio della selettività e della meritocrazia contro il riduzionismo egualitario, l’appiattimento delle personalità, il depotenziamento delle energie vitali.
Le civiltà muoiono, dice Lorenz, quando i processo di parassitismo e di degenerescenza impoveriscono la forza di conservazione e di aggressività insite nell’uomo. Restare fedeli alla propria natura è la sola possibilità che l’uomo ha di sottrarsi all’imbarbarimento ed alla soggezione alla costruzione di destini che contrastano con la sua natura.
Ancora più esplicito Lorenz è nel saggio Il declino dell’uomo edito da Piano B, nel quale sostiene che la tecnocrazia crea una società iperorganizzata allo scopo di deresponsabilizzare la persona. Sul piano culturale, sostiene, viene a mancare la pluralità di opinioni e scambi reciproci che sono i fondamenti di qualsiasi processo creativo. Sicché la nostra epoca è assolutamente povera di creatività se non vogliamo considerare questa nelle espressioni culturali, letterarie ed artistiche dominanti le cui scialbe prove – a parte qualcuna ovviamente – sono destinata ad individui che recepiscono la semplicità e l’ovvietà rifiutando ciò che è intrinsecamente complesso. È la civiltà che è minacciata, dice Lorenz, ed approfondisce questa sua affermazione formulando una diagnosi assolutamente pertinente avendo di vista la minaccia delle forme che minano le qualità e lo doti che “fanno dell’uomo un essere umano”. Pochi, aggiunge, considerano come una malattia il declino del quale parla nel libro e non si propongono di individuarne le cause. Accontentandosi dello sviluppo tecnico ed economico, l’uomo accetta passivamente di essere dominato da forze incontrollabili. E ciò è ancor più pernicioso per le generazioni future. “La gioventù di oggi – scrive – si trova in una situazione particolarmente critica. Se vogliamo stornare l’apocalisse che ci minaccia, dobbiamo risvegliare, soprattutto nei giovani, la sensibilità per i valori, per la bontà, per la bellezza: una sensibilità che è stata calpestata dalla mentalità scientista e dal pensiero tecnomorfo”.
Come se ne esce? Riprendendo il contatto più stretto con la natura, ricoprendo l’armonia del creato, praticando il culto delle differenze che solo può metterci al riparo dall’omologazione e dalla tirannia – diremmo oggi – del “pensiero unico”.
Konrad Lorenz nell’Intervista a de Benoist offre un esempio che può sembrare banale, ma non lo è, per recuperare una dimensione davvero umana: “Bisogna imitare i contadini, presso i quali tutto avviene in modo naturale: il bambino gioca ad imitare i suoi genitori ed in questo modo si forma. Ho un amico contadino che è notevolmente rispettato dai suoi figli. Per una semplice ragione: fa le cose meglio di loro ed i figli cercano di farle bene quanto lui”. Nell’altra intervista, quella a Kreuzer, intrattenendosi sul tema dell’educazione, Lorenz dice sostanzialmente la stessa cosa: è fondamentale mantenere un equilibrio. “Si ottengono i più disastrosi insuccessi sia se si dà un’educazione autoritaria, sia se si dà u un’ educazione assolutamente antiautoritaria”. Mi sembra che sia una questione di stringente attualità.
Saggezza antica, saggezza di sempre. Il fondamento dell’autorità è nell’esempio. L’educazione a seguirlo è il metodo. L’oca Martina non seguiva Lorenz nello stagno di Altenberg insieme con la sua prole in fila ordinata? Il principio ed il senso dell’umanità in un quadro idilliaco, fiabesco che l’etologo ha proposto con la semplicità di un contadino austriaco ad una umanità frastornata da disumani meccani stanno risucchiando nel nulla. Fedele ad un principio arcaico: vivere è imparare. E di questi tempi si impara a vivere fronteggiando un cataclisma o qualcosa che gli assomiglia, avendo di vista il fondamento della vita ed il suo ciclo inarrestabile. L’etologia è anche una lezione sul destino e una critica alla modernità.