Può davvero accadere – come qualcuno sussurra – che la forzata astinenza eucaristica finisca per corroborare il cattolicesimo italiano in questa quaresima che s’è all’improvviso trasformata in quarantena?
La presidenza del Consiglio dei ministri ha decretato che tutte le pubbliche “cerimonie”, civili o religiose che siano, dovranno essere sospese fino al prossimo aprile. E i vescovi italiani hanno recepito tale direttiva, comunicando ai fedeli delle loro diocesi l’interruzione di ogni liturgia, anche di quella eucaristica, in pubblico (il che è già un ossimoro, dato che la liturgia ecclesiale è costitutivamente pubblica) e prospettando semmai la possibilità di considerare “spiritualmente valida” la visione delle liturgie in televisione o in collegamento streaming, salva così restando la profilassi del cosiddetto “distanziamento sociale” prescritto dai tecnici consulenti del governo italiano.
Le buone intenzioni che sottostanno a questa sofferta decisione si lasciano agevolmente intuire e apprezzare. Ma se ne possono intravvedere anche i rischi, destinati a palesare un grave fraintendimento del senso autentico della liturgia. Dietro l’angolo, infatti, stanno in agguato un certo rigurgito clericale e una tentazione tipicamente consumistica.
Quanto al primo, potremmo ragionare a partire dal fatto che il termine “cerimonia” esprime una versione ormai del tutto secolarizzata del termine “celebrazione”, che dovrebbe invece risuonare molto più appropriato nel caso delle liturgie cristiane, specialmente di quella eucaristica. A una cerimonia, per quanto solenne, si assiste. E questo, al limite, lo si può fare anche guardandola in diretta streaming e persino in differita televisiva. Invece a una celebrazione si partecipa, da parte di tutti, senza che nessuno dei partecipanti debba limitarsi al ruolo di spettatore mentre qualcun altro svolge in solitaria la parte del protagonista. Se è vero che ci fu un tempo in cui fu possibile che accadesse qualcosa del genere, è altrettanto vero che c’era stato ancor prima un tempo più lungo in cui la liturgia eucaristica era vera e propria “sinassi”, dalla voce verbale “synaxióō” (compiere insieme).
La messa fu e in realtà continua ad essere una sinassi eucaristica, perciò una celebrazione comunitaria, il cui soggetto plurimo è l’intera assemblea, non soltanto il prete o il vescovo: tutti ascoltano Dio che ancora si annuncia con la sua Parola, tutti rispondono con la preghiera unanime a quella Parola, tutti entrano nell’orizzonte della Pasqua di cui l’azione eucaristica è il memoriale, tutti – ogni volta – entrano in contatto con il Cristo Crocifisso-Risorto. Il Concilio Vaticano II ce lo ha ricordato, anche se spesso i matrimoni e i funerali in chiesa, non meno dei battesimi, delle prime comunioni, delle cresime, dei pontificali nelle cattedrali di mezzo mondo, sono stati inscenati come delle scintillanti cerimonie, con degli attori da una parte e degli spettatori dall’altra.
Forse una salutare maniera di sottrarci a un tale rischio clericale potrebbe consistere nel prendere sul serio il desiderio eucaristico espresso dalle popolazioni amazzoniche nell’ultimo Sinodo svoltosi in Vaticano: sarebbe un esercizio quaresimale capace di giovare spiritualmente a chi – come noi – corre il pericolo di abituarsi alla facilità della messa, regolarmente celebrata più volte in un giorno dentro i confini pur sempre ristretti di una stessa città o addirittura di un medesimo paesino. Farci carico del bisogno eucaristico delle popolazioni cattoliche che vivono nell’immensa Amazzonia, potrebbe spingerci a trovare una creativa e coraggiosa soluzione a quel problema e indurci a riscoprire il senso autentico, comunitario, partecipativo, della messa.
Quanto al rischio di una deriva consumistica, me lo ha segnalato inconsapevolmente un amico, che mi ha confidato di essersi deciso, per il prosieguo della quaresima, a collegarsi in streaming con un monastero lontano circa mille chilometri dal posto in cui vive, per seguirne le rinomate celebrazioni eucaristiche. Potranno farlo chissà quanti altri, ognuno mettendosi a cercare la versione liturgica che più gli aggrada, come si fa passando in rassegna i palinsesti di Dazn o Sky.
Anche in questo caso giova ricordare che la liturgia non funziona in tal modo. È un’azione, non una trasmissione televisiva. Se ne è agenti, non fruitori. Qualcuno potrà obiettare che anche a guardare un bel film ci si può lasciar coinvolgere emotivamente, specialmente se in 3D o in 4K. Ma il coinvolgimento nella liturgia eucaristica scorre lungo un altro solco, scavato nella personale partecipazione, che non assomiglia per nulla a una semplice video-interattività.