Qual è la posta in gioco nella sfida planetaria lanciata all’umanità dall’ultima versione (con data 2019) del virus di cui parliamo dalla mattina alla sera? E quale esito possiamo intravedere di questa partita che è assai più politica (ed economica) che sanitaria?
Ebbene queste sono le domande essenziali che dobbiamo porci sin d’ora, proprio mentre infuria la lotta per la vita di migliaia di persone contagiate nel mondo, lotta che sta mettendo sotto pressione spaventosa i sistemi sanitari di decine di nazioni (soprattutto nel mondo occidentale, con effetti in Europa e nord America che ancora non siamo in grado di conoscere).
A mio personale parere la posta in gioco è la leadership dell’intero pianeta, leadership che la versione da XXI secolo del Partito Comunista Cinese si avvia a vincere con forza, spregiudicatezza e sprezzo del pericolo.
Cosa ci porta a dire questo però?
Quattro ragioni essenziali che ora proviamo ad elencare, non prima di avere messo in chiaro la situazione antecedente, cioè quella dell’autunno 2019.
Una situazione in cui, per la prima volta da almeno un paio di decenni, la Cina aveva dovuto scendere a patti con gli Usa in materia di dazi e anche accettare l’idea di una crescita del Pil nazionale a ritmi meno “furibondi” di quelli del recente passato.
Il virus però cambia tutto ed ora vediamo perché.
Punto primo: l’epidemia parte in Cina, che quindi può essere considerata il “paziente zero” di tutta questa storia. A rigore avrebbe dovuto finire all’indice del mondo intero, ma invece il suo gruppo dirigente riesce (con metodi di cui noi conosciamo poco o nulla) a trasformare una “colpa” in una cavalcata trionfale, al punto che oggi (tanto per fare qualche esempio si legga l’intervista di Urbano Cairo a Salvatore Merlo per Il Foglio oppure si guardi alle parole pronunciate in queste ore dai governatori Fontana e Zaia) il “modello cinese” è considerato l’unico in grado di arginare il dilagare del virus.
Punto secondo: Pechino ha messo in campo un piano eccezionale d’intervento mostrando al mondo intero di disporre del potere assoluto (fino a quello di vita e morte) sui propri cittadini e sulle loro relazioni sociali, economiche e familiari. Quei pochi che hanno tentato di disturbare il manovratore” (ad esempio quei medici che hanno parlato del virus attraverso i social prima del tempo) sono stati zittiti e posti in condizioni di non nuocere, spesso con metodi fuori da ogni circuito democratico. Quindi il potere imperiale e comunista (di nuovo conio) del presidente Xi Jinping si è dispiegato in tutta la sua potenza, consentendogli di annunciare la fine dell’emergenza (ieri, 9 marzo) mentre nel mondo (Washington compresa) si arranca tra incertezza, sarcasmo e paura.
Punto terzo: la Cina ha mostrato di non essere come la Russia. Per l’ennesima volta infatti il partito a Pechino non ha scelto la stessa linea di Mosca (negare l’esistenza del problema), ma ha invece messo in campo una impressionante strategia di reazione, in grado (come effetto collaterale ma di primaria importanza) di spiegare a tutto il mondo che i nuovi miliardari autoctoni possono certamente diventare molto ricchi (Jack Ma in testa) ma nel momento della crisi diventano dei pigmei di fronte all’esibizione di forza del partito e di tutte le strutture dello Stato (polizia, militari, sanitari e così via). Insomma la Cina non è un Paese dominato dagli oligarchi e non intende diventarlo.
Punto quarto: la battaglia contro il coronavirus si è combattuta con ampio utilizzo di tecnologia e big data, facendo scempio di ogni elementare diritto di privacy dei cittadini. Controllo degli spostamenti attraverso smartphone e compagnie telefoniche, utilizzo delle informazioni presenti su chat e social network, caschi indossati dai militari in grado di riconoscere i volti anche in presenza della mascherina e dotati di dispositivi per rilevare immediatamente la temperatura, robot in giro per le strade con funzione di monitoraggio sociale, telecamere piazzate ovunque, banche dati delle carte di credito a disposizione per incrociare dati sensibili. Tutto è stato usato per sconfiggere il virus, tutto è nelle mani dello Stato (che d’ora in poi potrà farne ciò che vuole).
Infine, c’è il quinto punto, di gran lunga il più importante. La vittoria cinese è culturale, perché tutto il mondo sta guardando a Pechino per capire come risolvere il problema. La Cina, potenzialmente l’untore del pianeta, è diventata la soluzione del problema, grazie a un poderoso cocktail di “soft e hard power”, che verrà certamente buono anche per altri usi. Il coronavirus, in fondo, è stata solo una monumentale prova generale.