Mentre il prezzo del petrolio continua a colare a picco, ieri, segnando il peggior crollo dal 1987 e scendendo sotto la soglia psicologica dei 30 dollari al barile, l’effetto isolazionismo legato allo tsunami del coronavirus sta accelerando la corsa degli Stati ad accaparrarsi riserve strategiche di greggio, Strategic Petroleum Reserves (Spr).
Lo scorso venerdì il presidente Usa, Donald Trump, ha annunciato che gli Stati Uniti approfitteranno dei prezzi bassi del greggio per riempire “a tappo” la riserva nazionale strategica di petrolio, anche per rilanciare la produzione nazionale. Al momento, secondo le stime del Dipartimento dell’energia statunitense, la Spr di Washington ha una capacità totale di 635 milioni di barili ma potrebbe essere aumentata di 77 ulteriori milioni di barili, per far fronte alla guerra del petrolio di queste settimane. Alcuni analisti al momento però non sembrano appoggiare totalmente la misura.
Daniel Yergin – storico dell’energia e direttore della Cambridge Energy Research Associates – si è mostrato scettico sul fatto che l’acquisto di petrolio possa aiutare rapidamente ad aiutare i produttori nazionali, soprattutto in una fase in cui il mercato è inondato di output proveniente da altri Paesi. L’industria energetica statunitense – una di quelle che riesce ad esportare greggio più velocemente verso i porti di destinazione – è stata duramente attaccata dalla nuova postura commerciale dell’Arabia Saudita. Negli ultimi giorni, Riad ha messo in mare una mezza dozzina di super petroliere per una capacità massima di 12 milioni di barili di greggio che intende vendere a 25 dollari al barile. Una mossa senza precedenti che rischia di mettere in seria difficoltà le petroliere americane che dal Golfo del Messico sono dirette a rifornire di greggio i principali mercati di sbocco, tanto che, alcuni senatori repubblicani hanno preso carta e penna per scrivere al principe saudita Bin Salman, invitandolo a prendere urgentemente misure volte a raffreddare le tensioni sul mercato.
Un’altra importante potenza che sta cercando di approfittare della tempesta del cheap oil per rifornire la propria riserva strategica è l’India. Il governo di New Delhi per questa operazione, come riferisce la Reuters, sarebbe intenzionato ad approvvigionarsi direttamente sfruttando la partnership con i sauditi e con gli emiratini. La saudita Aramco e l’emiratina Adnoc – due delle principali compagnie energetiche mondiali – sono pronte a rifornire il Paese asiatico con ulteriori scorte di greggio e, allo scopo il ministro del petrolio indiano, Dharmendra Pradhan, avrebbe chiesto l’appostamento nel bilancio dello Stato di circa 637 milioni di dollari per acquisire altro greggio a basso costo.
La riserva strategica indiana ha una capacità di circa 36 milioni di barili ed è localizzata su tre siti sotterranei: Mangalore, Visakhapatnam e Padur. Già lo scorso anno la società indiana che gestisce la riserva strategica ha firmato un accordo con l’Adnoc per rifornire di greggio lo stabilimento di Padur, che può contenere 4,6 milioni di barili di greggio. Secondo Goldman Sachs, però, la mossa di Washington così come quella di Delhi, di aumentare al massimo le proprie riserve strategiche non sarà sufficiente a bloccare la caduta libera dell’oro nero.
“Un aumento dello 0,8 per cento della capacità di stoccaggio del petrolio è semplicemente troppo piccola per consentire di liberare dal mercato quote di produzione che stanno inondando oggi gli acquirenti”, ha scritto la banca americana. Intanto, le grandi compagnie petrolifere si preparano a sopravvivere in questo scenario, la British Petroleum ha dichiarato di poter tagliare i propri costi del 20 per cento. Le azioni della major petrolifera con sede a Londra sono diminuite del 40% circa da quando l’alleanza Opec Plus si è rotta dopo la resa dei conti tra Arabia Saudita e Russia. Anche la Exxon sta pensando ad una riduzione dei propri costi dopo che S&P Rating ha abbassato, per la prima volta dopo il 2016, il merito di credito del colosso petrolifero.