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Rivoluzionario e conservatore? Malgieri racconta Mortillaro, economista atipico

Quando l’economista Felice Mortillaro (1931-1995) – protagonista delle relazioni industriali e professore di diritto del lavoro –  si pose in maniera frontale contro gli esiti del Sessantotto, rilevandone l’inanità culturale nell’affrontare le contraddizioni della modernità, interpellò il movimento sindacale ed il mondo politico sul futuro del nostro Paese. Non ottenne le risposte che si attendeva, o sperava di ottenere, in quanto l’ideologia dominante del tempo, permeata da un aggressivo egualitarismo di discendenza giacobina, negava in radice la meritocrazia sulla quale il Professore, come veniva chiamato, avrebbe voluto rifondare le relazioni industriali nel nostro Paese con specifico riguardo alle competenze e allo sviluppo di un capitalismo sostenibile.

Il tal senso la “metafisica” del profitto a cui faceva riferimento, come imprescindibile fattore di progresso e benessere comune, non poteva essere considerato fine a se stesso e volto all’arricchimento dei ceti affluenti, ma quale fattore di  maggior produzione da parte dei singoli, delle imprese, della società civile nelle sue molteplici e complesse articolazioni.

Un “perno”, insomma, nella costruzione di quella “terza via” (da lui mai scientificamente asseverata e legittimata) negata dalla sinistra e guardata con sospetto dai cattolici in politica che pure avrebbero dovuto favorirla se non altro perché discendenti dalla lezione “sociale” di Leone XIII e di Giuseppe Toniolo.

Insomma, il fine della conciliazione tra capitale d lavoro (su cui il grande Pontefice Giovanni Paolo II si diffuse con ampie e convincenti argomentazioni in occasione della promulgazione dell’enciclica Laborem exercens nel 1981, rinnovando per di più  gli assunti contenuti nelle encicliche Rerum Novarum di Leone XIII e Quadragesimo anno di Pio XII) in una società avanzata che non poteva sopportare ancora l’antico conflitto di classe e l’ipostatica contrapposizione tra un sindacalismo velleitario e straccione asservito ai partiti politici, ma funzionale pure al grande capitale (perpetrando un costante tradimento delle ragioni dei lavoratori), e l’impresa industriale, poteva essere un onorevole “compromesso” di carattere culturale tra le componenti più vive della società del tempo, vale a dire tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta. All’epoca, il baluginare di un neo-egoismo, definito “riflusso sociale”, asseverava un ritiro sotto la tenda da parte di tutte le componenti che comunque continuavano a guardarsi in cagnesco.

Il tema della partecipazione, in quel tempo, si profilava come lo strumento più congruo per far uscire dall’ambito utopistico la “terza via” e renderla operante politicamente e socialmente.

Mortillaro si pose di fronte alla prospettiva “partecipazionistica” con ostilità supportata da un realismo piuttosto cinico, sostanzialmente relegandola tra le carabattole ideologiche, senza comprendere che soltanto coinvolgendo tutti i soggetti attivi si sarebbe potuto evitare quel “necessario” – a suo giudizio – ed ineluttabile conflitto tra le parti. Una prospettiva francamente poco lungimirante.

“In un ordinamento in cui l’impresa si configura come organismo diretto alla produzione di beni o di servizi in regime di rischio economico, rischio che ricade esclusivamente sull’imprenditore e sul capitalista, che senso ha parlare di partecipazione e quindi di ‘democrazia industriale’?”.

malgieriQuesta incongruenza costituisce, per Mortillaro, scrive Italo Inglese nel suo approfondito profilo, L’arte delle relazioni industriali. Il pensiero di Felice Mortillaro (Solfanelli, p.104, € 9), il punto chiave del problema, giacché la discussione sul tema non può prescindere dalle compatibilità economiche, interne e internazionali: “Ora, solo che si ragioni con sufficiente attenzione, ci si accorge inevitabilmente che la categoria del metodo democratico non è sopportabile dall’iniziativa economica, la quale è in condizione di pagarne i costi soltanto fino a quando essa non entri in collisione con l’esigenza di assumere decisioni che permettano all’impresa di reggere la competizione di mercato”. Da qui discende la difficoltà di ipotizzare un “terza via” che abbia concrete possibilità di attuazione.

La terza via veniva così cancellata. E questo è il lato debole della costruzione di Mortillaro al punto che la partecipazione è oggi il più moderno ed efficace antidoto ad un nuovo tipo di capitalismo che nell’economia globale assume fattezze catastrofiche dal momento che la figura dell’operaio, del lavoratore, è stata completamente azzerata e sostituita dalla macchina vero soggetto della produzione unitamente alle grandi conglomerazioni  imprenditoriali internazionali.

Tuttavia se la “partecipazione democratica” respinta da Mortillaro non rispondeva – e considero, la negazione un errore commesso all’epoca – alle esigenze di collaborazione tra le parti, una diversa forma di “partecipazione organica”, sostenuta da Mortillaro, apre alla possibilità, come sottolinea Inglese riprendendo, la tesi del suo professore, della costruzione di un sistema nel quale “sia possibile e auspicabile un sistema in cui forti organizzazioni dei lavoratori e forti organizzazioni dei datori di lavoro siano “in grado di far scaturire dallo scontro intese durature, che si traducano in certezza di comportamenti e di costi per entrambe le parti” e consentano alle parti  stesse “di vivere in pace, almeno relativa, senza essere continuamente costrette a rimettere in discussione gli impegni assunti”.

Naturalmente questo presuppone che “le organizzazioni sindacali si riconoscano come elementi di un sistema e, rinunciando ad ambizioni egemoniche, adottino tutti gli strumenti a disposizione per rendere evoluto e civilizzato lo scontro tra interessi, abbassandone così il grado di ideologizzazione e di pericolosità sociale”.

In questo libro, Inglese, pur con il dovuto distacco, ma non la mancanza di riconoscenza dell’intelligenza politica e programmatica di Mortillaro, si chiede se il Professore può essere considerato un “rivoluzionario-conservatore”. Sarebbe più corretto, inquadrarlo dal mio, punto di vista come un liberale dalle tendenze conservatrici, partecipe di una visione anti-egualitaria della società e, dunque, delle relazioni industriali.

Fautore del libero mercato, del profitto e della concorrenza; sostenitore della ineluttabilità del conflitto tra interessi contrapposti; ostile ad una “terza via” nel sistema delle relazioni industriali nel quale il sindacato esercita una sorta di contropotere; anti-marxista a tutto tondo: questi i caratteri “ ideologici” di Mortillaro che  comunque  si definiva  “conservatore” rivendicando la discendenza da Mosca, Pareto e Prezzolini. E se si assumono a livello paradigmatico i punti nodali della concezione teorica dei tre studiosi citati, non vi è dubbio che Mortillaro possa iscriversi alla scuola conservatrice. Ma sotto il profilo sociale egli ne è lontano e mai potrebbe condividerne  gli assunti, almeno restando nei confini culturali nazionali, di un conservatore-nazionalista come Enrico Corradini la cui “cifra” politico-culturale fu quella di conciliare la classe con la nazione , non diversamente da numerosi sindacalisti-rivoluzionari.

Se, come scrive Inglese, tra Mortillaro e la “rivoluzione conservatrice” esistono molte assonanze, ritengo che si dovrebbe definire questa per tentare un incasellamento  nelle diverse espressioni sintetizzate da Armin Mohler.

Nulla vieta di assumere talune fattispecie del pensiero di Mortillaro come evoluzione di alcuni leitbilder rivoluzionario-conservatori, ma in senso classico la sua distanza dall’ideologia völkisch e da una visione eroica dell’esistenza, oltre la lontananza dalle derivazioni di un socialismo nazionale, gli fanno assumere una collocazione a mio giudizio più consona ad un certo liberalismo prezzoliniano che ad una concezione radicale esplicitata, per esempio nella teorizzazione del “nemico” in senso schmittiano. Per il giurista tedesco è l’hostis , il nemico esterno, l’altro che qualifica il soggetto del conflitto, mentre il nemico interno,  l’inimicus non attiene alla definizione del “politico” perché è il nemico privato, non quello pubblico.  Ma questo è un discorso che ci porterebbe molto lontano.

“Il liberalismo di Mortillaro  – scrive Inglese – costituisce senza dubbio una dissonanza, forse l’unica sostanziale, con la rivoluzione conservatrice. Ma, anche in questo caso, la sua posizione non era dettata da un settario dogmatismo,  bensì dalla pragmatica constatazione dell’assenza di un modello credibile che potesse essere contrapposto a quello del libero mercato”. Una giusta osservazione che contribuisce a porre Mortillaro nel posto che merita nel contesto del conflitto ideologico del secondo Novecento.



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