Al volgere della seconda metà degli anni Settanta, ma i “sintomi” erano già evidenti agli inizi del decennio, dopo la sorprendente e consistente ascesa politica della Destra nazionale, una sorta di “morboso” interesse, da parte di media e di intellettuali, si manifestò attorno a quel mondo al quale quasi mai ci si era accostati da parte dell’establishment culturale dominante. L’intento non fu tanto quello di comprendere le ragioni dei “reprobi”, ma piuttosto di demonizzarle preventivamente. Naturalmente con l’accusa di preparare il terreno all’avvento (l’ennesimo) del fascismo. Non faceva ridere, all’epoca, l’indirizzo che la cultura egemone aveva preso nell’occuparsi di quella che approssimativamente veniva definita “cultura di destra”. Il disegno era quello di mettere fuori gioco autori, editori (pochi), giornali, intellettuali, accademici, pubblicisti, artisti che mostravano tendenze “politicamente scorrette”.
Tuttavia la “tenuta” di quel mondo “appartato” e apertamente vilipeso fu notevole, nonostante si moltiplicassero gli sforzi tesi ad arginare “sconfinamenti” o intrusioni nei recinti ben protetti dall’intellighentzia da parte di “guastatori” delle linee del conformismo culturale. Ci fu addirittura chi immaginò di approntare una sorta di “cordone sanitario” attorno alle iniziative editoriali non in linea con il pensiero democratico.
LA CULTURA DI DESTRA
Tante e tali furono le peripezie, tra il grottesco ed il delinquenziale, che occorrerebbe un volume apposito per documentarle. Ma la cultura di destra, grazie a editori come Rusconi, il cui direttore era Alfredo Cattabiani, Giovanni Volpe, figlio di Gioacchino il più grande storico del Novecento, le Edizioni del Borghese, dirette da Mario Tedeschi e da Claudio Quarantotto, unitamente a piccole case editrici (che a volerle definire tali ci voleva molta fantasia) e a tantissime riviste che non citerò nel timore di dimenticarne qualcuna, animarono un mondo che secondo i “padroni del potere” non avrebbe dovuto avere cittadinanza nell’Italia “laica democratica e antifascista”, come recitava la giaculatoria assai in voga sui giornali ed in televisione.
Eppure, nonostante l’esiguità degli strumenti a disposizione, poco più di quarant’anni fa si accese una disputa, non certo marginale, animata dal ceto politico-culturale filo-comunista ed azionista soprattutto sulla “insopportabile” presenza della cultura di destra in Italia.
Memori della lezione gramsciana, rilanciata da un gruppo di giovani intellettuali che ritenevano il primato della cultura prevalente sull’azione politica e si dedicavano alla “metapolitica” come incomprensibili stregoni usciti da chissà dove, al punto di spaventare perfino la Destra istituzionale, i “sinistri” cominciarono ad occuparsi delle “fonti” dalle quali una tale insopportabile tendenza culturale traeva linfa ed ispirazione.
Due libri, in particolare, Lambro/Hobbit e La cultura di destra, rispettivamente di Giuseppe Bessarione (pseudonimo di un collettivo facente capo alla casa editrice Arcana) e di Furio Jesi, germanista, docente all’Università di Palermo, offrirono l’opportunità a gran parte di giornalisti e studiosi ben inseriti nelle strutture del potere culturale per “rilanciare” – ad onor del vero non sempre in termini aprioristicamente negativi – un tema che era attraente più di quanto gli stessi passivi oggetti dell’attenzione immaginavano.
Il tema della cultura di destra, liquidato in malo modo per una serie di inenarrabili motivi, tornò ad emergere sull’onda della riscoperta di numerosi autori, in coincidenza con la crisi del marxismo la quale, esaurita la spinta sessantottesca, mostrava segni di cedimento teorico, oltre che politico, che apertamente mettevano in discussione la modernità. Da qui la scoperta, per taluni piuttosto bizzarra, per altri “provocatoria”, di intellettuali ritenuti “impresentabili” secondo le costumanze del tempo. E non si trattava della solita lista di “delinquenti dell’intelligenza” come Evola, Guénon, Jünger, Spengler, Heidegger, Schmitt, Eliade, Cioran, e via citando alla rinfusa, come fossero fastidiosi coriandoli, ma di solidi intellettuali che mai avevano trescato con il fascismo e che in tutto il mondo venivano considerati con assoluto rispetto.
APPROPRIAZIONI “INDEBITE”
Mentre i “sacerdoti” di Francoforte cadevano uno dopo l’altro, il freudo-marxismo mostrava tutte le insufficienze a comprendere le difficoltà nelle quali si dibatteva la società affluente ed il solo Pasolini in Italia, da sinistra, condannava la “leggerezza” benestante della borghesia che aveva smarrito se stessa. Nel contempo a Parigi Sartre teneva ancora circolo al Café de Flore animando, anzi ri-animando una gauche in evidente stato di trance e da Berkeley non partivano più parole d’ordine rivoluzionarie rimpannucciate nella devota protezione capitalista.
Insomma, nonostante i tentativi più o meno maldestri, di “silenziare” una cultura “altra”, riemersero autori e idee dei quali da decenni non si sentiva parlare più, se non in circoli ristrettissimi e nessun giornale dava spazio a ciò che pubblicavano.
Da Destra, si cominciò addirittura a discorrere diffusamente di indebite “appropriazioni” da parte dell’intellighentzia di sinistra che manipolava e travisava pensatori che contraddicevano premesse, valore speculativo, metodologie e finalità della cultura progressista. Ingenerando così equivoci ideologici che a lungo andare si sarebbero ritorti contro gli “abusi” interpretativi della cultura della destra, oppure si sarebbero piegati all’autocritica e ad un ripensamento profondo. Ipotesi improbabile quest’ultima, dal momento che l’intellettuale integrato o “organico”, come si diceva a quel tempo, teneva più al potere che alla verità: non dispiacere il “padrone” era più di un ferreo comandamento; era un vero e proprio stile di vita collaudato da tempo e al quale sarebbe stato ingenuo pensare che ci si sarebbe potuto sottrarre.
Ricordando quel tempo in cui il revival della cultura non schierata a sinistra o nei suoi paraggi, suscitava interessi eccentrici e mal tollerati dagli ambienti più conformisti, viene in mente che Nietzsche rappresentò il caso più clamoroso di “appropriazione indebita”; o almeno così venne recepito.
Negli anni Settanta, gli intellettuali che avevano letto qualcosa di meno scontato e banale, lontano dalla scolastica marxista, sembravano non potersi dire, sia pure in misura e modi diversi, “nietzscheani”. Da Deleuze a Lacan, da Guattari a Cacciari, a Vattimo ognuno cercò di vedere – almeno così parve – nel filosofo tedesco il capostipite della critica alla modernità e allo stravolgimento della metafisica occidentale nei suoi esiti borghesi. Dimenticando, nel contempo, che il aveva messo in guardia i lettori, soprattutto nelle pagine di Ecce homo, i lettori contro gli abusi arbitrari degli eventuali esegeti, affermando che il miglior “interprete” della sua filosofia era egli stesso e come tale, nella “biografia intellettuale” disseminata tra le sue opere, forniva gli strumenti ermeneutici per la comprensione e la decifrazione dei propri scritti.
ORDINARI “ABUSI”
Altro “abuso”, tra i tanti che bisognerebbe ricordare perpetrati in quei tempi ormai lontani, venne consumato dal già citato Furio Jesi ai danni di Oswald Spengler nell’introduzione da lui scritta per una nuova edizione del Tramonto dell’Occidente. Un saggio nel quale in ogni pagina è presente il tentativo di allontanare il morfologo tedesco dalla nostra epoca per rinchiuderlo ermeticamente nell’armadio delle Cassandre inascoltate, insieme con altri, presunti “cadaveri” ibernati dall’intellighentzia progressista perché non “allineati” al conformismo culturale e dunque oggettivamente “scomodi” quando non palesemente “impresentabili”.
Edoardo Sanguinetti all’epoca dichiarava che “Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche, Jünger, Heidegger sono pensatori di destra che non possiamo escludere dal nostro orizzonte culturale”. Gli faceva eco Fabio Mussi, intellettuale e dirigente del Pci, poi parlamentare, affermando perentoriamente: “Mi ha fatto capire la Rivoluzione francese più Joseph de Maistre di tanto ‘giacobinismo degli stenterelli’: ai giovani consiglierei in particolare di leggere ‘L’elogio del boia’ contenuto nelle Serate di San Pietroburgo. Poi Nietzsche, indispensabile per la comprensione del mondo moderno, e lo storicismo di Oswald Spengler. Inoltre Heidegger: sia pure da un punto di vista punitivo per la ragione, ha compreso la questione della tecnica nel mondo contemporaneo e l’influenza della quotidianità. Questa è la Grande Destra”.
Riconoscimenti di importante rilievo. Ma se questo era vero, tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta, come mai non venne dato seguito ad una politica di “comprensione” tra due schieramenti alla ricerca di ciò che poteva formare la piattaforma per un incontro civile volto a modificare il sistema dei rapporti culturali preludio di ben altri cambiamenti?
La risposta l’abbiamo sollecitata per anni ed è rimasta inevasa.
IL RICONOSCIMENTO DELLA SCONFITTA DELLA SINISTRA
È stato tuttavia consolante, per quanto frustrante visti gli esiti egemonici dell’affermazione dei postulati della sinistra al potere nell’ambito della cultura, dell’editoria, dell’università, della scuola, della televisione, delle organizzazioni nelle quali si formava il consenso, il riconoscimento dell’ammissione di una “sconfitta” – perché di questo si è trattato – seppur non ammessa. Aver rimosso Marx e Marcuse, Lenin e Mao, Garaudy e Sartre ha significato chiudere con lo “spirito della rivoluzione” e cercare strade nuove che ad un certo punto, per quanti sforzi siano stati fatti (pensiamo soprattutto ai più intelligenti, quelli di Cacciari, Esposito, Marramao, Tronti, Preve, intellettuali di grande spessore e di straordinaria cultura alla continua ricerca delle ragioni degli “altri” ) si sono arenati di fronte all’ insorgenza di moduli nuovi calati nella politica italiana con l’avvento del liberalismo all’amatriciana, incarnato politicamente dai cosiddetti interpreti della seconda repubblica, che ha assorbito energie e tensioni sottraendole a quel confronto che sarebbe stato utile anche ai fini della promozione della tanto decantata Grande Riforma.
Tuttavia se dall’armadio del “cattiverio” sono usciti, sia pure con grande parsimonia, i “profeti del passato” e soltanto ai mentecatti può venire in mente di demonizzare ancora Drieu e Brasillach, Pound e Cèline, Bonnard e Rebatet, Benn e George, lasciando stare gli italiani che ormai hanno bisogno soltanto di essere difesi dall’eccessivo entusiasmo di coloro c he fino a qualche anno fa li avversavano, vuol dire che la cultura – per quanto funzionale a progetti fantasiosamente ritenuti “illiberali”, e poi magari si scopre che sono soltanto nazional-popolari o conservatori – non è possibile “disarmarla”, come auspicava Sartre, né “ghettizzarla” in eterno: l’epurazione, come s’è visto, non ha mai prodotto nulla di decente. La sopraffazione spicciola, preordinata, vagamente offensiva che nulla possiede delle qualità proprie ad una critica più che legittima, non porta a niente. La sinistra culturale negli ultimi vent’anni ha rimasticato vecchie parole d’ordine che non sappiamo se definire più patetiche o grottesche. La “sfida” con la globalizzazione, la tecnocrazia, il vuoto esistenziale può essere affrontato soltanto con le “idee senza parole”, come diceva Spengler, non badando troppo alle etichette ed ai pregiudizi.
Conservo un vecchio articolo di Lucio Villari, apparso su La Repubblica negli anni Ottanta. E leggo: “La definizione di Heidegger, ad esempio o di Céline, come uomini di destra, non penso sia il problema principale. E non perché all’improvviso, questi uomini, trasfigurati e decolorati, non siano più di destra, ma nel senso che, proprio perché di destra, essi danno un aiuto sostanziale all’intelligenza di eventi culturali complessivi non più separabili da uno storicismo manicheo”.
Ancora oggi, dopo tanto tempo, mi sembra un’ammissione importante che non può non far pensare.
Il dibattito intrecciatosi sulla crisi della civiltà e sull’idea di Stato, sulla “comunità” e sulla “società”, sulla bio-politica e sulla geopolitica, sull’etnologia e sull’etologia, sull’antropologia culturale e sul revisionismo storico non può essere inficiato dall’apposizione di vecchie etichette su tesi che hanno il loro valore assoluto a prescindere da come vengono interpretate ed utilizzate.
LA CULTURA DELLO SPIRITO
È questo il lascito della cosiddetta cultura di destra che animò il paesaggio intellettuale negli anni Settanta. I pensatori, i poeti, gli scrittori, gli artisti di riferimento non possono essere considerate soltanto delle “illustri riscoperte”, ma le tangibili testimonianze di un pensiero fecondo che solo per comodità si definisce di destra .
La cultura dello spirito – sulla spinta anche di fenomeni di estrema materializzazione dell’esistenza e dell’invasività totalitaria del relativismo e del determinismo – riemerge fino a contaminare aree che si ritenevano refrattarie alla reazione contro le distorsioni prodotte dal progressismo.
Non lo si immaginava tra la fine degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta, tra il “raccolto” del Sessantotto e la catastrofe del comunismo mondiale che sarebbe emersa una nuova consapevolezza nelle comunità intellettuali e nei popoli non ancora del tutto piegati alle logiche mercatiste e all’abominio dell’indifferentismo. Certo, il “pensiero unico” omologante e funzionale al sistema di potere che elimina le differenze è il nemico da abbattere. Ma non con le dichiarazioni di principio, né con il pur comprensibile lamento sulla décadence.
Una cultura “attiva” è quella che ci mostra le linee di tendenza di una opposizione al conformismo.
Nelle pagine che seguono, si possono leggere i pensieri “attuali” – che all’epoca potevano sembrare “inattuali” – di Jünger e di Freund, di Paratore e di Vettori, di Elias de Tejada e di Sinjavskij, di Gregor e di Bardéche, di de Benoist e di Horia, di Spiazzi, di Fini e di Zecchi raccolti negli anni in cui alcune idee appena sfiorate accendevano prospettive che erano il nutrimento di minoranze che mai avrebbero immaginato contaminazioni tanto pregnanti con il mondo che gli stava davanti in maniera quasi sempre ostile. Al tramonto del “secolo breve” i colloqui registrati con alcuni pensatori che avevano lo sguardo lungo sulla realtà del nuovo Millennio furono corroboranti per chi viveva al di là del fosso, oltre le acque putride della modernità.
Oggi, rendendoci conto che quei colloqui non sono ammuffiti, non sono diventati archeologia intellettuale, mi sembra di qualche interesse riproporli come contributo alla comprensione di ciò che è stato il “cammino nel bosco”, per usare una metafora jüngeriana, un percorso segnato dalle idee degli “irregolari” incontrati che possono, se adeguatamente interpretati, aprire prospettive critiche sul nostro incerto avvenire.
(Per ordinazioni: tabulafatiordini@yahoo.it).