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Cosa c’è (e cosa manca) nel Pnr. La radiografia di Polillo

C’è forse una notizia, celata nelle 130 pagine di quel castello di carta che è il Pnr: il Piano nazionale delle riforme, che ogni anno, grazie alla fervida fantasia di quelli di Bruxelles, l’Italia, al pari di tutti gli altri a Paesi, è costretta a compilare. Che poi quella montagna, di solito, non abbia nemmeno prodotto un topolino è solo un piccolo, ma importante, corollario. La notizia è che, almeno nelle intenzioni di Via XX settembre, cui spetta il copyright dell’opera, l’Italia chiederà l’intervento del Mes.

Gli indizi sono rilevanti, anche se manca una pronuncia ufficiale. Ma le misure previste per far fronte, quest’anno, all’epidemia (179,5 miliardi di euro) non consentono molti margini. Presuppongono un Recovery Fund pari a 750 miliardi di euro. Già un problema. Ma soprattutto una disponibilità immediata di cassa che sarà impossibile ottenere. Ed allora la maggior celerità del Mes diverrà essenziale. Con ogni probabilità, quindi, nelle prossime settimane si assisterà ad un balletto dell’assurdo. Con i DS, insieme a Forza Italia, sempre più convinti nel non rifiutare quell’apporto ed i 5 stelle, sotto il pungolo dell’opposizione (Lega e Fratelli d’Italia) a ripetere il “non possimus”, trattandosi dello sterco del diavolo. Ci vorrà tutta l’abilità di Giuseppe Conte, per uscire da un’impasse, che, comunque, non sarà senza conseguenze di carattere politico.

Per il resto il documento non si discosta molto da quelli visti in passato. Un lungo elenco di cose da fare, sulle quali, in linea di massima, non si può che convenire. Si può essere contrari agli investimenti green che secondo le previsioni, nel lungo periodo, dovrebbero contribuire all’aumento del Pil per un valore pari al 5 per cento? Fosse vero, considerato che dalla nascita dell’euro l’Italia è cresciuta in media dello 0,13 per cento all’anno (dati del Fmi), sarebbe un miracolo. E Roberto Gualtieri dovrebbe essere proposto per il Nobel dell’economia.

Manca nel documento un qualsiasi cenno ai motivi per cui, negli anni passati, quelle ricette – più o meno le stesse – non hanno modificato di una virgola le tragiche tendenze dell’economia italiana. Le risorse erano poche? Troppo timidi gli interventi? Troppo forte il condizionamento internazionale? Come si vede i motivi potrebbero essere tanti. Ma una loro disamina sarebbe stata necessaria per dimostrare che quello che non era avvenuto negli anni passati, poteva inverarsi nell’immediato futuro. Sarebbe stata, se non altro, utile per convincere gli scettici. Categoria alla quale ci sentiamo di appartenere. Convinti, come siamo, che il declino italiano derivi soprattutto da una cattiva lettura della nostra realtà nazionale. Argomento di per sé non risolutivo, ma l’unico capace di innescare quella scossa che, in prospettiva, può farci forse uscire dal guado.

Tutto ciò, ovviamente, non c’è nel documento elaborato dai tecnici del ministero. Vi sono, in compenso, tanti riferimenti impliciti alla situazione politica sia europea (la disamina delle misure messe in campo) che italiana: il documento di Colao, la lunga kermesse degli Stati generali. Postille obbligate per mantenere in piedi l’unità della maggioranza. Ma poi quando si tratta di prendere il toro per le corna, tutte le implicite debolezze riemergono, come in un torrente carsico. La caduta del Pil, per l’anno in corso, è cifrata all’8 per cento. Valore che non trova riscontro in nessun altra previsione. Tanto per fare un esempio il Fmi prevede una caduta del 12,8. La Banca d’Italia considera una forchetta compresa tra il 9,2 ed il 13,1. Insomma: un abisso che trascina con sé tutte le altre variabili di natura finanziaria che il documento governativo, pudicamente, non prova nemmeno a citare.

Non insisteremo, pertanto, nel descrivere le politiche settoriali. Su un aspetto, tuttavia, vale la pena soffermarsi. Welcome, come dicono gli inglesi, per l’accento riposto sulla necessità di una riforma fiscale. Sennonché le sue linee guida seguono l’impostazione tradizionale di un partito, come il Pd, che anche giustamente vuol difendere soprattutto, se non esclusivamente, i lavoratori dipendenti. Che sono poi quelli che le tasse le pagano veramente. Purtroppo non basta. Per un obiettivo, che resta comunque parziale, mancano le risorse. Almeno per interventi significativi, che non siano i pochi soldi già messi in busta paga.

Le risorse necessarie possono derivare solo da una riforma fiscale che abbia una portata pari a quella degli anni ‘70, che mutò il volto del fisco italiano. Ovviamente si tratterà di tener conto dei cambiamenti intervenuti nella struttura della società italiana, come si fece allora, per rendere la logica del prelievo coerente con i presupposti strutturali in cui esso si innesta. Una riforma, che non si improvvisa. Richiede appunto quella lettura profonda della crisi italiana che è ancora latitante. E che fin quando sarà così, si avrà sempre la scusa di addebitare ad altri, soprattutto all’Europa, le ragioni del proprio fallimento.



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