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Semplificazioni, la vera sfida è la riqualificazione del personale pubblico. Parla il prof. Clarich

Le semplificazioni sono fondamentali per ridare competitività all’Italia ma devono essere accompagnate “da un serio piano di riqualificazione del personale pubblico: alla fine quello che conta sono le competenze tecniche, giuridiche ed economiche che oggi purtroppo, in molti casi, mancano”. Parola di Marcello Clarich – ordinario di Diritto amministrativo alla Sapienza Università di Roma – secondo cui occorrono anche, contemporaneamente, azioni di lungo periodo che permettano davvero alla macchina burocratica di diventare più efficace ed efficiente: “Se ci si limita sempre a una serie di interventi tampone, il quadro d’insieme non migliorerà mai”. Come dimostrano i tanti provvedimenti varati negli ultimi anni che alla fine hanno contribuito spesso, solamente, a rendere più caotico e complicato il sistema. “Pensi al contenzioso sulle gare d’appalto: non è che dipenda dalle norme, bensì dal fatto che i bandi o i capitolati in troppi casi sono scritti male”, ha commentato ancora Clarich in questa conversazione con Formiche.net.

Professore, ha letto le prime bozze del testo del decreto legge allo studio del governo?

L’ho letto, certo. Ma l’esperienza mi insegna che prima di commentare è meglio attendere la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Ho l’impressione, comunque, che il provvedimento debba essere interpretato come l’inizio di un percorso. Le semplificazioni – per essere complete – richiederebbero un’analisi a tappeto di tutte le norme amministrative e di tutti i procedimenti delle Pubbliche amministrazioni che non mi pare possa essere contenuta nei 48 articoli del decreto legge.

Vuol dire che dopo questo decreto sarebbe lecito attendersene altri?

Semplificare è un’attività complessa, non significa approvare norme semplicistiche. Occorre andare in profondità, entrare nei dettagli. E poi non deve voler dire la fine del sistema dei controlli che rimangono fondamentali per evitare le distorsioni cui abbiamo assistito in passato.

Però il decreto legge sembra che prevederà l’attenuazione dell’abuso d’ufficio e della responsabilità per danno erariale dei dipendenti pubblici. Contrario?

Assolutamente non sono contrario, anzi. Sono convinto che possa aiutare, come abbiamo anche sottolineato in un recente paper di Assonime. Però, se eliminiamo questo tipo di controlli, dobbiamo al tempo stesso trovare altri strumenti di verifica in grado di funzionare. Altrimenti il rischio è che si creino situazioni pericolose, soprattutto in un Paese, come il nostro, tradizionalmente ad alto tasso di corruzione.

Che ne pensa della probabile limitazione della responsabilità erariale ai soli casi di dolo?

Sono d’accordo, a patto, però, che sui casi di colpa grave vi sia comunque una valutazione da parte delle stesse pubbliche amministrazioni. Si parla pur sempre di ipotesi di grave negligenza da parte dei funzionari pubblici, per le quali deve pur rimanere una qualche forma di controllo.

E delle norme che sanzionerebbero di fronte alla Corte dei Conti l’eventuale inerzia dei dirigenti o funzionari pubblici?

Io credo che debbano esserci, più che altro, incentivi positivi a far bene. Oggi i dirigenti e i funzionari pubblici – esclusi i casi di responsabilità erariale o abuso d’ufficio (che sono una minoranza) – non hanno alcun incentivo a raggiungere i risultati previsti. C’è il totale appiattimento salariale e i premi non sono mai decollati. Inevitabile che in questa situazione in troppi si limitino a fare il minimo indispensabile.

Ma il problema del cosiddetto sciopero della firma, dovuto a questo sistema di responsabilità, quanto è grave a suo avviso?

In entrambi i casi i dati dimostrano che c’è una grande distanza tra il rischio effettivo e il rischio percepito. I numeri non sono tali da giustificare l’allarme ma questi disincentivi sono diventati alla fine un ulteriore pretesto per non decidere. Sono favorevole ad alleggerire i due versanti – danno erariale e abuso d’ufficio – ma vorrei che fossero introdotti strumenti di verifica soprattutto in termini di efficacia ed efficienza, che non siano un mero controllo formale delle norme.

Professore ma come si può garantire che le opere pubbliche e le infrastrutture vengano realizzate in tempi non siderali come quelli italiani?

Innanzitutto va detto che molte opere restano ferme perché mancano i fondi oppure perché le risorse finiscono durante i lavori. E’ necessario che siano completamente finanziate dall’inizio.

E poi?

Bisogna intervenire sulle autorizzazioni e sulle procedure. Si tratta dei famigerati tempi di attraversamento – in Italia lunghissimi – tra i quali rientrano pure quelli del contenzioso, che talvolta può arrivare a sospendere le procedure. In questi casi può accadere che, pur in assenza di sospensiva, il funzionario preferisca fermarsi. Per questo trovo utile una delle norme allo studio: quella secondo cui, se il giudice amministrativo non sospende, il funzionario che non si ferma non corre rischi di incorrere in responsabilità.

Lato aziende su quale aspetto ritiene si dovrebbe intervenire?

Sulle dimensioni delle imprese di costruzioni. Altrove – in Europa, ma anche negli Stati Uniti – hanno ben altre strutture, grandezze e, quindi, capacità. Da noi, invece, spesso si frazionano i lotti per aggiudicare i lavori e andare incontro, con il sistema del subappalto, alle esigenze delle piccole e piccolissime imprese. Peccato però che poi possano insorgere problemi. Ad esempio il fallimento di un’azienda, che porta inevitabilmente ad aumentare i tempi di realizzazione dell’opera. Piccolo non è sempre bello. Il rischio che si inceppi qualcosa in questo sistema così parcellizzato è piuttosto elevato.

E sul fronte delle pubbliche amministrazioni appaltanti? In Italia si contano qualcosa come 44mila centri di spesa pubblica

Bisognerebbe introdurre criteri automatici per la qualificazione delle stazioni appaltanti. Ad esempio affermare che i comuni fino a un certo numero di abitanti non possono bandire gare: in questo modo sarebbero spinti a mettersi d’accordo. Occorre trovare alcuni semplici e chiari parametri auto-applicativi. Ma bisogna averne la forza politica. Se non ci muoviamo in questo modo, neppure tra vent’anni saremo riusciti a garantire l’accorpamento e la razionalizzazione delle stazioni appaltanti.



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