Il successo del sistema sanitario tedesco nell’affrontare l’emergenza Covid-19 è dovuto in buona parte alla forza della medicina territoriale tedesca che ha fatto da filtro facendo arrivare alle strutture ospedaliere pochi casi. Al contrario l’emergenza ha dimostrato tutta la debolezza della medicina territoriale italiana che, per lo meno in un primo tempo, ha lasciato a casa i contagiati senza nessuna assistenza per farli affluire all’ospedale quando per molti di loro era oramai troppo tardi.
Non si tratta tanto di far avere più risorse alla medicina di base: qui si deve riconsiderare dalle fondamenta il modello della nostra sanità. Si badi bene che la nostra sanità risponde ad un modello unico a livello nazionale, laddove le differenze regionali sono di dettaglio. Tale modello unico è riconducibile al fatto che quando il nostro sistema sanitario fu istituito (nel 1978 con la legge 833) non era ancora intervenuta la riforma costituzionale del 2001 e le regioni potevano legiferare nelle materie specificate dall’art. 117 solo nell’ambito di una legge quadro nazionale. La 833/78 è per l’appunto una legge quadro che ha condizionato tutte le legislazioni regionali in materia di sanità. Quando poi con la riforma del titolo V della Costituzione del 2001 le Regioni avrebbero potuto adottare sistemi diversi, oramai la situazione si era talmente incrostata che le modifiche introdotte hanno riguardato solo elementi di dettaglio.
Il modello introdotto nel 1978 con la legge 833 fa una grande scelta di base che personalmente condivido totalmente ed in maniera incondizionata: considera la salute un bene pubblico e non più un bene privato. Accanto a questa scelta totalmente condivisibile, ne fece altre sul versante puramente organizzativo ingenue e disastrose.
Gli errori “tecnici” possono essere ricondotti a tre gruppi:
(i) l’aver incentrato tutto sull’ospedale,
(ii) aver confuso libertà professionale con economia privata di mercato,
(iii) aver fatto coincidere l’erogazione del servizio con il suo finanziamento. Vediamo i tre punti separatamente.
IL RUOLO CENTRALE DELL’OSPEDALE
Il modello del 1978 si incardina sull’Unità Sanitaria Locale (Usl) nell’ambito della quale si trovano presidi ospedalieri (non dotati di personalità giuridica né di autonomia contabile) e distretti (nell’ambito dei quali si trovano i laboratori di analisi e gli specialisti). Il medico di famiglia viene ridefinito come medico di base. Il suo compito è quello di prescrivere le analisi e richiedere le visite specialistiche. La prescrizione medica che dà diritto al medicinale pagato a carico del servizio sanitario può essere fatta solo dal medico di base. La stessa terminologia introdotta di per sé significativa e aiuta a capire il modello: presidio, distretto sono termini del vocabolario militare; medico di base presuppone una piramide alla base della quale si trova il medico di base, al livello intermedio il distretto e al vertice l’ospedale. Il medico di base è un passacarte non un professionista della sanità. Originariamente l’ospedale era concepito come un luogo sano e pulito dove ricoverare temporaneamente degli individui che, indeboliti da una qualche patologia, abitavano in residenze fatiscenti. Gli appartenenti ai ceti abbienti non avevano bisogno di essere ricoverati in ospedale: si facevano curare a casa. La cesura è avvenuta tra gli anni 70 e l’inizio di questo secolo. Papa Paolo VI, il maresciallo Tito e il caudillo Francisco Franco si sono fatti curare (Paolo VI persino operare alla prostata) nelle loro residenze. Giovanni Paolo II è stato curato all’ospedale Gemelli di Roma. La cesura è avvenuta proprio quando si maturava la legge 833 del 1978. In Italia abbiamo gestito questo passaggio in maniera estrema concentrando tutto sull’ospedale.
Negli anni ’90, nel tentativo di trovare un’efficienza che non c’era, il sistema è stato leggermente modificato. Le Usl (unità sanitarie locali) sono divenute Asl (aziende sanitarie locali), aziende che sono state sottratte alla gestione dei sindaci e sono passate sotto la gestione diretta delle regioni. In questo modo, anziché recuperare in efficienza, si è creato un problema di coordinamento venuto alla luce proprio in occasione della crisi del Covid-19. I provvedimenti che richiedono l’uso dell’imposizione autoritaria (ad esempio chiusura di esercizi pubblici) sono competenza dei prefetti e dei sindaci in quanto ufficiali di governo. Le regioni hanno il potere di confinare dei territori? Chissà? In molte regioni, nella pia illusione di realizzare delle economie di scala, si è ridotto il numero delle usl/asl, di modo che all’interno di una stessa usl/asl esistono oramai molti ospedali. Ospedali che continuano a non avere personalità giuridica né autonomia contabile. La confusione regna oramai sovrana.
LIBERA PROFESSIONE E ATTIVITÀ D’IMPRESA A SCOPO DI LUCRO
Il giurista sa bene che l’attività professionale è una attività non profit, un’attività che richiede la remunerazione della prestazione ma non la remunerazione del capitale investimento. Questo concetto fondamentale non fa parte della nostra cultura politica, sopratutto della cultura di una certa sinistra (qui non va dimenticato che il 1978 fu l’anno in cui il Pci di Berlinguer entrò nella maggioranza di governo attraverso il meccanismo della “non sfiducia”, passaggio epocale che ha richiesto il suo prezzo). Il ruolo del medico nel nostro sistema sanitario non è concepito come un ruolo da libero professionista ma come il ruolo di uno stipendiato pubblico. Qui si aggancia la vicenda della nostra partecipazione alle istituzioni europee. Ad un certo punto, sulla spinta dei principi alla base dell’architettura europea, il legislatore italiano è stato letteralmente costretto a permettere al medico ospedaliero o di distretto l’esercizio della sua attività secondo i principi della libera professione. Ne è venuto fuori l’istituto del così detto esercizio libero-professionale intra-moenia. Il medico ospedaliero e di distretto può esercitare una parte della sua attività non in quanto stipendiato ma a come libero professionista emettendo fattura per ogni prestazione. Di fatto oggi il paziente se vuole scegliersi il medico da cui farsi curare deve optare per la prestazione intra moenia. Di fatto se non si vuole/può aspettare i tempi richiesti da liste d’attesa di mesi e anni il paziente deve pagare la prestazione. L’alternativa qui non è tra medicina a costo zero per il paziente ma medicina burocratica o medicina professionale ma a pagamento. Qui bisogna scindere la libertà del paziente di scegliersi il suo medico libero professionista e chi esegue il pagamento della prestazione. In Europa questa scissione viene definita come il metodo del “terzo pagante”. La vera integrazione tra medicina ospedaliera e medicina del territorio, del resto, la si può avere solo se il medico riacquista la sua identità di libero professionista che eroga le sue prestazioni in parte sul territorio ed in parte in un ospedale.
IL FINANZIAMENTO DELLE PRESTAZIONI SANITARIE
Il nostro sistema si caratterizza per il fatto che il finanziamento delle prestazioni non è una controprestazione ma viene dall’alto, dalla Regione che finanzia le varie Asl. Le regioni recuperano le risorse attraverso l’Irap e la tassa sugli automezzi. L’Irap, imposta non amata dalle imprese e della cui soppressione periodicamente si parla , è uscita dal cappello del governo Prodi per porre argine ad una azione che i nostri radicali, guidati da Pannella, avevano iniziato a Bruxelles, azione che mirava a far decadere lo strumento di finanziamento della sanità allora in uso: la così detta “tassa sulla salute”. La tassa sulla salute era non solo e non tanto un’imposta di scopo bella e buona ma una sorta di “assicurazione obbligatoria di stato”, assicurazione che contraddice i principi comunitari della libera concorrenza. Quello dei meccanismi di finanziamento delle nostre Asl è uno dei nodi confusi del nostro sistema. Qui vogliamo rammentare che, nel tentativo teorico di raccordare il finanziamento delle Asl alle loro prestazioni reali, è stato a suo tempo istituito una sorta di prezzario dei servizi sanitari (noto con il nome di diagnostically related groups – Drg). Si tratta di un prezzario ipotetico non basato sulla effettiva formazione dei prezzi ma su regole burocratiche. Questo sistema, anziché responsabilizzare le Asl agganciando le risorse loro trasferite dalle regioni ai servizi resi, ha portato allo snaturamento delle cartelle cliniche. Le cartelle cliniche, anziché strumento di raccolta dei dati sull’evoluzione della patologia del paziente, sono divenute uno strumento per reclamare risorse finanziarie alla regione!
Tutta questa confusione va affrontata con determinazione e con chiarezza. Nell’interesse degli operatori della sanità che si trovano ad operare in un sistema che non ha nulla di sistematico. La medicina del territorio non si potenzia creando l’infermiere territoriale, come è stato da più parti proposto, infermiere territoriale che del resto già esiste. È il ruolo del medico come libero professionista che va ricostruito.
Mi sorge una domanda: che la resistenza al Mes sanitario sia dovuta al timore di riportare il nostro sistema sanitario in linea con principi dello stato di diritto e dell’esercizio della libera professione?