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Perché lo Stato azionista è una partita persa. L’analisi di Giacalone

Non è tempo di Iri, ma dobbiamo difendere la nostra industria facendo entrare lo Stato come azionista di minoranza e temporaneo. Chiaro e netto, il pensiero di Romano Prodi. Una testa pensante, a differenza di tante bocche parlanti. Non di meno quella è una ricetta votata a sicura sconfitta. Seguono ragioni e indicazioni.

1. L’Italia è la seconda potenza industriale e la terza economica d’Ue, ma è anche il Paese arrivato al virus con il più alto debito pubblico, quindi con la più bassa capacità di spendere in soccorso non sanitario. I dati forniti da Eurostat già lo confermano. Se impostiamo la competizione futura sulla capacità statale di reggere le aziende investendovi e diventando azionista, abbiamo già perso, perché gli altri fanno e faranno assai di più.

2. Che l’azionista pubblico sia di minoranza risponde al concetto di rafforzamento patrimoniale senza entrare nella gestione aziendale. Corretto. Salvo che qui si pratica l’esatto contrario, visto che financo per garantire i prestiti c’è chi vuol mettersi al timone delle aziende, più perché gli piace il cappello e il megafono che non perché abbia una quale che sia idea circa la rotta.

3. Che l’azionista pubblico sia temporaneo è corretto e obamiano (vedasi gestione crisi bancarie negli Usa), ma immaginario. Non è un caso che Prodi argomenti seriamente, ma incorra nel serio inciampo di neanche nominare Alitalia. Sappiamo come va: Stato azionista al 20%; alla prima scelta aziendale arriva lo sciopero sindacale; l’azionista insiste per mediare al che chi ha più azioni gli dice: prenditele tutte. E così finisce il salmo, garantendo debiti per l’avvenire.

4. Non facciamo gli statalisti, facciamo come in Francia, dice Prodi. In Francia sono statalisti. Ma ancora conservano lo Stato e una classe dirigente. Qui la prima cosa che i governanti hanno detto, visti all’orizzonte i non ancora esistenti fondi del Recovery, è: diminuiamo le tasse. Un raggiro masochista che sarebbe la furbata ottusa di chi ci capisce niente e pensa di fregare i libbberisti. Certo che devono scendere, ma tagliando la spesa corrente, non pagandola con entrare temporanee. Roba da matti.

E allora, cosa si può fare? La nostra forza, quel che ci mantiene le posizioni viste in premessa, è che il pezzo (minoritario) d’Italia che compete è bravo e vince. Su quello si deve puntare.

A. Con lo Stato che non faccia l’azionista, ma il committente e severo controllore del rispetto di tempi e risultati. C’è da realizzare la rete 5G, ci sono scuole da mettere in sicurezza, ci sono trasporti da reimpostare e così via. L’enorme liquidità europea sia concentrata in quegli sforzi.

B. A fine agosto finisce d’essere finanziata la cassa integrazione. In generale non si può andare avanti con la geremiade di chi chiede e la stoltezza bradipa di chi elargisce. I soldi servano a creare lavoro, il passaggio dalle casse al destinatario finale sia intermediato dalla produzione. I soldi buttati in follie assistenzialclientelari, come quota 100 e reddito di cittadinanza, sono generatori di povertà. Altro che l’abolizione proclamata da teste abolite.

C. Decisiva, per lo sprint, sarà l’amministrazione: dall’anagrafe alla giustizia. Per l’anagrafe si è stati capaci solo di prorogare le proroghe, per la giustizia peggio: si discute su un letamaio facendo finta che il problema sia fra il filosofico e il politico. È più semplice: la giustizia non c’è, il che fa scappare gli investitori.

D. Della scuola quasi nessuno sente la mancanza, anche perché la frequentarono con profitto nell’ora di ricreazione. Ma la mancata istruzione è perdita di competizione. A recuperare ci vuole poco, ci vuole consapevolezza, ad affossare ulteriormente ci vuole meno, bastano i già annunciati contratti temporanei eterni a chi non ha mai fatto un concorso.

L’Italia ha notevoli punti di forza. Il problema è che si punta ancora su quelli di debolezza.



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