Il golden power, lo “scudo” del governo a difesa delle imprese nei settori strategici, è appena entrato nel vivo. Lo schema di Dpcm emerso dall’ultimo Consiglio dei ministri dopo un’informativa del sottosegretario Riccardo Fraccaro delinea quali saranno le filiere protette dai “poteri speciali” introdotti nel 2012 per fermare sul nascere azioni ostili, dall’acqua alla salute, dal sistema elettorale a quello di approvigionamento alimentare fino alla Borsa.
La nuova normativa ha esteso la tutela pubblica anche alle operazioni infra-Ue. Una novità, adottata da altri Paesi Ue, per alzare l’asticella anche sullo shopping dei vicini di casa. Il Copasir, che in questi mesi ha seguito da vicino il lavoro di preparazione del nuovo golden power, ha chiesto di rendere ancora più cogente il sistema con una serie di modifiche, fra cui una stretta sulle operazioni di attori europei. Il rischio, spiega in questa intervista Fabio Bassan, docente di Diritto internazionale dell’Economia all’Università di Roma Tre, è che la norma violi le leggi Ue sulla concorrenza. Ci sono altri strumenti oltre al golden power che lo Stato può usare per “fare politica industriale” in questi mesi di crisi. Ecco quali.
Professore, il nuovo golden power ora entra nel vivo. C’è chi dice che ancora non è sufficiente a proteggere le aziende italiane. Lei che idea si è fatto di questo strumento?
In Italia il golden power sta subendo un andamento a elastico. È nato come strumento per aprire il mercato agli investitori esteri. Ha superato la golden share, che permetteva allo Stato di intervenire con molta più discrezionalità. Era il 2012, c’era grande concorrenza fra gli ordinamenti degli stati euuropei per attrarre i fondi sovrani e gli investitori di lungo periodo.
Oggi?
Oggi, con la nuova normativa, è diventato un vero e proprio scudo intorno alle imprese, peraltro applicato anche nei confronti dei soggetti Ue. Un domani, quando il peggio della crisi sarà passato e dovremo attrarre investimenti, sarà necessario allentare di nuovo.
Il Copasir chiede di passare da un sistema di notifica a un sistema autorizzativo. Così non si rischia di congelare il mercato?
A dire il vero, potrebbe sortire l’effetto opposto. Il nostro attuale golden power aggiornato ad aprile consiste in una matrice che mette insieme due sistemi. Quello dei settori, previsto dalla normativa del 2012. E quello delineato dal Regolamento Ue del 2018, che invece tutela le infrastrutture a prescindere dalla loro appartenenza ai singoli settori. È una matrice rigida, che funziona con una notifica preventiva. Se c’è un’impresa che produce energia e vuole vendere delle azioni a un fondo di investimento, oggi deve notificarlo.
Quindi?
Quindi la presidenza del Consiglio è passata da gestire poche operazioni a fare i conti potenzialmente con centinaia di richieste in contemporanea. Se prima erano garantiti tempi relativamente rapidi, 45 giorni con proroga di altri 30, oggi la mole di richieste potrebbe rendere di difficile applicazione quella procedura. L’autorizzazione aiuta a velocizzare, soprattutto le operazioni non critiche, ma ha anche effetti collaterali. Se non è previsto un silenzio-assenso le imprese rimangono in attesa di una risposta, senza tempi certi.
Un rilievo mosso da Adolfo Urso, vicepresidente del Copasir, riguarda le operazioni infra-Ue. Che rientrano nel nuovo golden power, ma ancora godono di un regime molto diverso rispetto a quelle extra-comunitarie. Giusto equipararli?
Partiamo da una premessa. È ragionevole pensare che da qui a fine anno saranno pochi gli attori extra Ue a farsi avanti. Questa normativa è un forte deterrente. Lo stesso ovviamente non vale per le imprese infra-Ue. Il nuovo golden power è già border-line rispetto alla normativa europea, che sì permette delle restrizioni al mercato ma solo in situazioni eccezionali e con molte precauzioni. Il tema è delicato, anche sotto il profilo giuridico.
Ci spieghi.
Possiamo dire di no a un’impresa francese che aumenta la sua partecipazione in un’azienda italiana? Certo, ma non è detto che la vicenda finisca qui. Non è detto, ad esempio, che se l’impresa francese si reca di fronte al Tar, questo segua l’argomentazione di Palazzo Chigi che la norma impone sia dettagliata. E dal Tar un’impresa europea può ricorrere direttamente alla Corte di Giustizia dell’Ue, o nel caso di un’impresa extra-Ue a un tribunale arbitrale, se i rispettivi Paesi hanno un trattato bilaterale con l’Italia sugli investimenti.
Non c’è un divario troppo marcato fra le soglie previste per attori europei e non?
Ripeto, già l’attuale normativa è ai limiti, perché limita non poco la libera circolazione dei capitali. È stata pensata per differenziare le imprese Ue da quelle extra-Ue e garantire un principio di proporzionalità, prevedendo cioè per le imprese Ue un limite più flessibile. Questo rafforza la legittimità della norma, rispetto ai vincoli dei Trattati. Se si va oltre si entra in una sfera politica. Se nella situazione attuale una banca tedesca fa un’opa su una banca italiana, il nodo non si scioglie in un’aula di tribunale.
Un’altra critica che viene spesso mossa è che il golden power è uno strumento di difesa. Ce ne sono altri da mettere in campo?
Sono d’accordo. Il golden power, da solo, non basta. È uno strumento che deve essere messo insieme a una serie di altri elementi contingenti. Come la sospensione delle norme Ue sugli aiuti di Stato, che di fatto consente allo Stato di entrare nel capitale delle aziende in difficoltà. Questo ingresso, unito alla protezione delle imprese italiane dai movimenti di attori stranieri, concede allo Stato una finestra di opportunità per fare politica industriale.
Torna lo Stato imprenditore?
Parliamo pur sempre di un periodo transitorio, e soprattutto ce lo auguriamo. Se c’è una preparazione, una pianificazione, un consolidamento della filiera in alcuni settori può essere positivo. Abbiamo i soldi per farlo, grazie alla sospensione del Patto di Stabilità, e grazie al Recovery Fund che è il prodotto della “solidarietà necessaria” della Germania. Queste leve si possono utilizzare congiuntamente e possono essere strumentali a una strategia industriale.
In questi giorni si torna a parlare del caso Borsa Italiana. Lse (London Stock Exchange) dovrà liberarsene nel giro di poche settimane. Alla porta ci sono i francesi di Euronext. È opportuno immaginare una cordata per riprendersi la Borsa, o non è una priorità?
In questa fase in cui abbiamo di fatto sospeso le norme sulla concorrenza e sugli aiuti di Stato non possiamo essere più realisti del re. Non possiamo cioè lasciare ai francesi od altri la possibilità di prendere la Borsa Italiana, che conserva dati ed elementi critici. È ragionevole pensare un’operazione, che sia di mercato e preveda anche la partecipazione di alcuni soggetti pubblici, per rimpatriare la proprietà di Borsa Italiana.