“Non sarà facile, per i fotografi, tornare a fare il loro mestiere come prima”. Ha l’amaro in bocca, Umberto Pizzi, quando pensa a come sarà il futuro per chi, come lui, fa una professione a stretto contatto con il pubblico. “Dopo sessant’anni di lavoro, non pensavo sarebbe stata questa la fine della mia carriera”, aggiunge, ma il poco ottimismo verso il futuro non gli impedisce di aprire le porte della memoria e guardare a quando a Roma nasceva la professione del paparazzo. “Io non sono mai stato un paparazzo”, precisa Pizzi, “ma ne ho conosciuti tanti”.
Qualche nome? “Innanzitutto l’originale, Tazio Secchiaroli (nella foto a sinistra), quello che fece la foto alla ballerina turca che ispirò una scena del film di Fellini (Aichè Nanà, fotografata nel 1958 in un ristorante di Trastevere, il Rugantino, ndr). Una foto che fece scandalo, perché la ritrasse topless”. Ma se Secchiaroli è il primo nome che viene in mente quando si parla di paparazzi, non si può certo dire che sia l’unico. Gilberto Petrucci, Pietro D’Alessandro, Bruno Tartaglia, Ivan Kroscenko, Marcello Geppetti…
“Avevamo un vizio – confessa Pizzi – non ci ricordavamo mai i nomi dei fotografi e ci davamo spesso dei soprannomi: c’era il Barone Dudù perché rassomigliava a un attore che aveva fatto un film con Totò, poi Paparazzetto, perché era il più piccolo di tutti e poi c’era ‘Pocaluce’”. Non ricorda il suo vero nome, ma ricorda chiaramente l’origine del soprannome: “Quando portava le foto nelle redazioni i giornalisti gli dicevano sempre che le sue foto erano scure, e lui si giustificava dicendo: ‘Ma c’era poca luce!’”, conclude Pizzi con una risata. Poi c’era il barese, “che però era di Matera”, c’era Pagnottella “perché aiutava il padre nella pizzicheria, e i clienti gli dicevano: ‘Me fai una Pagnottella?’”.
(Nella foto: Pocaluce, Franco Zeffirelli, Marcellino Radogna)
“E poi c’ero io”. Nessuno soprannome per Umberto Pizzi? “Io no, ci provarono a chiamarmi mozzarella, perché ero sempre bianco, però siccome emanavo un certo carisma, anche da giovane, mi rispettavano e nessun soprannome sopravvisse più del mio nome”.
E se è vero che la memoria del cuore elimina i brutti ricordi e magnifica quelli belli, anche la rivalità e la cattiveria hanno una connotazione positiva agli occhi di Pizzi: “La rivalità c’era, si lottava, serviva la cattiveria per arrivare prima degli altri, ma poi la sera si stava tutti insieme, ci si faceva lo spaghetto col bicchiere di vino e ci si raccontava la giornata. I fotografi erano come i pescatori e i cacciatori, che dopo essere tornati a casa raccontano agli amici: ‘Ho preso un cervo, ho preso un pesce enorme’. Così facevano i fotografi. A volte le sparavano grosse eh, ma era questa la rivalità, senza rancori personali”.
(Lite tra Dario Repucci, Marcello Mastroianni e Marco Ferreri)
Chi resta, allora, nel cassetto dei ricordi? Gli amici. “Marcellino Radogna è una persona perbene. Figlio del Sud, era il fotografo nobile della nobiltà. Lo chiamavamo il Colonnello, per il suo aspetto e per i baffi. Era sempre delicato, potrei dire il mio contrappeso: mentre io aggredivo senza dare respiro, lui faceva fermare i suoi soggetti, li faceva respirare per poi scattare le foto”.
(Roger Peyrefitte, Vittorio Emanuele di Savoia, Marcellino Radogna)
Un fratello, aggiunge Pizzi, più che un collega. “È come un fratello per me, ti puoi fidare. Lui è uno dei pochi fotografi di cui ti puoi fidare. Ecco, io non sono un figlio di… però quando c’è la foto importante non mi tiro e non mi tiravo indietro. Diciamo che ero mezzo-mezzo, ti potevi fidare fino a un certo momento, ma quello che aveva importanza era la foto”.
Nel Paese in cui è nato uno stile fotografico, l’Italia, è difficile immaginare come ne uscirà questa professione, già colpita duramente dall’avvento di cellulari e fotocamere. “È la fine di un’epoca”, conclude Pizzi, “c’è da vedere come sarà quella che sta per iniziare”.
(LA STORIA DEI PAPARAZZI NELLE FOTO DI UMBERTO PIZZI. LA GALLERY COMPLETA)