Dopo la crisi del 2014 il barile scese addirittura a 28 dollari nel 2016 e un bel giorno il leader saudita incontrò il leader russo, racconta a Formiche.net Massimo Nicolazzi, manager con alle spalle una solida esperienza nel settore degli idrocarburi (Eni e Lukoil).
Entrambi avevano note divergenze di opinione su questioni del calibro di Iran, Siria, Turchia ma trattandosi di quattrini trovarono un accordo. Oggi è esploso un virus, non la sovraproduzione e hanno tutti bisogno di capire quale sia il massimo punto di caduta (tradotto, il vaccino) prima di capire cosa fare dopo.
Nicolazzi, membro della rivista geopolitica italiana “Limes” e autore per Feltrinelli di “Elogio del petrolio”, fa il punto sul crollo del prezzo del petrolio in Borsa, richiamando l’attenzione alle economie di Russia, Nigeria e Venezuela che si basano molto sulle rimesse.
Il presidente Donald Trump ha suggerito agli Stati Uniti di aggiungere 77 milioni di barili di petrolio alla Strategic Petroleum Reserve del paese. Che ne pensa?
Un nulla. Un mese fa aveva già parlato di una mossa simile. In giro c’è una capacità produttiva di 100 milioni di barili al giorno, di cui 30 che non si riescono a vendere. Quei 77 milioni rappresentano la capacità residua stimata della riserva, grossomodo rappresentano la produzione mondiale di un giorno. Guardando alla produzione americana Trump finanzia in qualche modo i perforatori affinché glielo comprino. In sostanza non si sa più dove mettere il greggio.
I tagli dell’OPEC + entreranno in vigore solo a maggio. Fino ad allora?
Non stiamo parlando di un ciclo economico, né di guerra fra produttori, né di sovraproduzione come nel grande tuffo del 2014: ma di una cosa che ha tempi epidemiologici e non economici. Dal mattino alla sera è venuto giù il 30% della domanda mondiale di petrolio, un bene che essenzialmente occorre ai trasporti che oggi sono fermi. Da questo punto di vista il taglio di 20 milioni si scontra con l’aritmetica: la domanda è crollata di 29 milioni di barili ad aprile. Faccio i miei auguri a sostenere il prezzo…
Dal momento che per la pandemia i pozzi non possono chiudere semplicemente come un bar o un ristorante, perché man mano che matura un pozzo diventa sempre più difficile e quindi costoso applicare la pressione richiesta per l’estrazione, come reagiranno i pozzi più vulnerabili all’arresto?
Tecnicamente chiudere a riaprire è rischioso già di per sé, perché non si sa cosa si trova quando si riapre un pozzo. Quanto più un giacimento è anziano come sfruttamento, quindi declinante come produzione, tanto più presenta dei problemi interni di tavola d’acqua. Lasciandolo chiuso essa può salire e non trovare più gli idrocarburi. Ci può essere un’altra contingenza, al di là se un giacimento sia giovane o vecchio: ovvero che se non si saprà più dove mettere il greggio, tra qualche giorno qualcuno sarà obbligato a chiudere. Non si può prendere una canna di plastica e irrorare i campi, chiaro? Siamo dinanzi ad una situazione che diventa più critica per le produzioni in terraferma logisticamente più distanti dal mare, perché ha prezzi folli ma qualche petroliera vuota in giro c’è ancora per fare stoccaggio.
Rischiano più i produttori americani o quelli orientali come sauditi o iraniani?
È una falsa contrapposizione, nel senso che il produttore americano a 20 dollari non reinveste, ha il costo marginale superiore dei tre e quindi è quello che rischia di più. Però ha una struttura di giacimenti: quelli shale sono uno strano animale, dove ogni buca è un giacimento, per quanto artificiale. Investire in shale oggi significa che fra tre mesi si inizia ad incassare, contro i sette anni di un giacimento convenzionale. Voglio dire che non appena i prezzi si rialzeranno, l’americano nonostante sia stato buttato fuori sarà in grado di rientrare perché ha un’attività molto sensibile al prezzo nel breve periodo.
Il produttore convenzionale invece?
Non ci perde mai dal punto di vista del margine operativo, perché magari qualcuno non recupererà investimenti, ma in termini di margine quasi tutto il petrolio che si produce arriva sul mercato con un costo operativo inferiore ai 20 dollari. Però ha un altro problema: il suo budget è funzionale al prezzo del petrolio, perché un paese produttore fondamentalmente basa la sua legge finanziaria su un aspettativa di introiti, da esportazione, di risorse naturali. Per avere un’idea, a 45 dollari l’esportazione di idrocarburi sarebbe valsa grossomodo l’80% delle rimesse dall’estero per la Russia e un 65% dell’intero budget federale. Immaginiano a cascata altre realtà, come il Venezuela o la Nigeria.
Il petrolio a 20 dollari a quelle latitudini cosa comporta?
Fa la differenza in termini di scuole, ospedali, welfare, creazione di consenso.
Il rublo ha perso il 2% sul dollaro. L’economia russa è particolarmente scossa più di altre dal calo storico della domanda?
Dipende cosa intendiamo per altre. La Russia non è un Paese monoculturale come possono essere altri del Medio Oriente che vivono solo di rimesse di petrolio. Sicuramente però è largamente dipendente dalle rimesse di gas e petrolio per la sua capacità di spesa interna. Nel 2014 per resistere ha bruciato le riserve valutarie e poi ha intaccato anche i fondi di riserva. Quest’anno ha fatto un bilancio 2020 basato su un prezzo attorno ai 45 dollari, ma dovrà spremere il fondo del magazzino anche perché non è in condizioni di fare troppo debito se vorrà rispettare i suoi programmi di welfare.
Il mini accordo raggiunto tra Opec e Russia è un nulla di fatto? E rispetto agli scenari di Iran e Cina?
Dopo la crisi del 2014, il barile scese addirittura a 28 nel 2016 e in Opec erano tutti l’uno contro l’altro, impegnati a tenere quote di mercato senza trovare un accordo sul taglio. Il prezzo era insostenibile per tutti, per cui un bel giorno il saudita ha incontrato il russo. Entrambi avevano note divergenze di opinione su questioni del calibro di Iran, Siria, Turchia con una palese contrapposizione sullo scenario macro regionale. Trattandosi di quattrini, però, si accomodarono in una sala riunioni separata e parlarono solo di petrolio, trovando un accordo. Per cui da 30 dollari, il barile tornò fino a 80 perché il mercato sentiva che la produzione era in qualche modo sotto controllo. Qui è esploso il virus, non solo la sovraproduzione, e adesso hanno tutti bisogno di capire quale sia il massimo punto di caduta prima di capire cosa fare dopo.
Quale sarà?
In questo momento qualunque accordo raggiungano, potrebbe essere un tentativo di contenere le perdite, non esiste ancora un orizzonte perché il nodo è la domanda, ovvero quando ripartirà l’attività produttiva e con che modalità. Quindi datemi un vaccino e vi darò uno scenario.
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