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Da Trump a Berlusconi, perché avanza la cura monoclonale contro il Covid. Parla Landi

Somministrati al presidente americano Donald Trump, positivo al Covid-19, gli anticorpi monoclonali prodotti dalla Regeneron sono ancora nella fase tre dei test. Distribuiti a poche centinaia di soggetti affetti da Sars-Cov-2, infatti, non hanno ancora ricevuto la green light della Food and drug administration (Fda) americana. Eppure, Trump ne sta assumendo la massima dose consentita (combinata all’antivirale Remdesivir della Gilead, lo stesso somministrato a Silvio Berlusconi). Ma la newyorkese Regeneron non è l’unica a percorrere la strada degli anticorpi monoclonali. Solo in Italia abbiamo già due realtà che stanno sperimentando i loro anticorpi. Ne abbiamo parlato con Fabrizio Landi, presidente di una delle due strutture che lavorano al progetto, la Fondazione Toscana Life Sciences.

Donald Trump è in terapia con gli anticorpi monoclonali della Regeneron, ancora in fase di sperimentazione. Un rischio o un’opportunità?

Il presidente americano sta usando i due farmaci di punta disponibili negli Stati Uniti: il Remdesivir, antivirale della Gilead, e gli anticorpi monoclonali della Regeneron. E personalmente non ci vedo nulla di sbagliato. Gli anticorpi non sono ancora stati approvati dalla Fda, ma così come vengono somministrati ad alcuni soggetti, in via compassionevole e per la sperimentazione, non vedo perché non dovrebbero essere testati sul presidente Usa, con il suo consenso e quello dei suoi medici.

Ma non ci sono dei rischi?

Minori di quanto non si dica. Quando si tratta di anticorpi monoclonali, parliamo di qualcosa che proviene in un certo senso già dall’uomo. Per cui il rischio di gravi effetti collaterali è quasi vicino allo zero. E poi ricordiamo che non si tratta di un vaccino, ovvero un farmaco somministrato a una persona sana che potrebbe ammalarsi per via del farmaco, ma di una persona già malata che ha come unica possibilità quella di sperimentare una cura quando non ve n’è una già collaudata e approvata.

Quindi il vaccino richiede tempi e precauzioni maggiori rispetto alle terapie?

Sì, ed ecco perché il grande entusiasmo degli ultimi mesi dai vaccini si è spostato sulle cure. Ci si è resi conto che per avere un vaccino sicuro ci vogliono anni, mentre la cura per sua stessa natura richiede tempi e precauzioni inferiori.

Per mesi Trump ha promosso e sostenuto la cura al plasma. Eppure, come hanno sottolineato in molti, una volta ammalatosi ha preferito il cocktail di monoclonali e antivirali. Incoerente?

Assolutamente no, è una polemica del tutto sterile. Negli Stati Uniti la terapia con il plasma non è consentita dalla Fda, nemmeno attraverso Eua (si tratta dell’autorizzazione momentanea, in soli casi di emergenza, alla somministrazione di una terapia altrimenti non approvata, ndr).

La Fondazione Toscana Life Sciences, che lei presiede, sta lavorando a una cura basata proprio sugli anticorpi monoclonali. Come funzionano?

Com’è noto ormai da anni, il sistema immunitario protegge il corpo da virus e batteri attraverso la produzione di anticorpi. Quando arriva un nuovo virus, come nel caso del Covid-19, il corpo non riesce a intercettarlo e fermarlo subito, per cui bisogna supportare il sistema immunitario in due modi: con il vaccino, che stimola il sistema immunitario prima che entri in contatto con il virus a prepararsi a curare l’infezione, generando in 4-6 settimane dalla vaccinazione una immunità attiva che rimane nel tempo, o con gli anticorpi monoclonali, che invece agiscono pochi minuti dopo la loro inoculazione nel paziente e che si sostituiscono all’attività del sistema immunitario: gli anticorpi monoclonali inducono quindi una immunità passiva che rimane in funzione per alcune settimane o qualche mese ma che cura il paziente e impedisce alle persone esposte al virus di ammalarsi.

E perché non puntare direttamente al vaccino?

In primis perché può essere somministrato solo ai soggetti sani. Se inietti un vaccino a una persona già malata, puoi solo peggiorare la situazione. Inoltre, dalla somministrazione il vaccino ha bisogno di un mese e mezzo per produrre i propri effetti. E poi c’è un limite ben più grande: il vaccino non c’è ancora e se è probabile che arriverà, i tempi per farne un largo utilizzo certamente non saranno brevi (almeno 15 mesi e più da oggi). Mentre il Covid-19 c’è e ha già prodotto i suoi danni.

I monoclonali, invece, come funzionano?

Sono particolari tipi di anticorpi, prodotti o con tecniche di Dna ricombinante o come nel nostro caso, estraendo gli anticorpi prodotti da malati guariti dal Covid-19, identificando fra loro i più potenti e poi clonandoli (cioè copiandoli e rendendoli adatti alla produzione di massa per farne milioni di dosi): queste dosi, dopo la validazione clinica, verranno iniettate nei malati.

Diversamente dal plasma, in cui invece viene iniettato direttamente dal malato. Giusto?

Sì, è corretto. Il plasma, dopo essere stato “ripulito” da possibili componenti biologiche pericolose, viene iniettato direttamente nel malato. Ma ha due grandi limiti. Il primo essenziale è che non basta in caso di grandi quantità di malati. Infatti, per ogni paziente guarito, in media, se ne possono trattare solo due. Il secondo è che i rischi sono maggiori, visto che si tratta sempre di una trasfusione.

E il vostro anticorpo a che punto è?

A febbraio un nostro team stava già lavorando sugli anticorpi per utilizzarli per l’antibiotico-resistenza. Al primo segno in Italia dell’emergenza il 21/2 giorno del paziente 0 o 1 di Codogno, il team coordinato da Rino Rappuoli ha deciso di ricalibrare le nostre attività spostandole sul Covid-19. Attraverso un’intensa collaborazione con lo Spallanzani, e successivamente anche con l’ospedale universitario di Siena, intorno a metà marzo avevamo già le cellule B di soggetti guariti, contenti migliaia di anticorpi. Di questi, ne abbiamo estrapolati un centinaio e li abbiamo esposti al Covid-19 nei nostri laboratori. In poco tempo avevamo isolato i tre più potenti, che riuscivano a bloccare il Covid-19 con dosi minori. Una volta brevettati, sono stati ristrutturati a livello cellulare e ora sono in fase di clonazione/industrializzazione.

I prossimi step quindi quali sono?

Entro fine novembre e i primi dicembre produrremo sufficienti dosi all’interno dell’impianto di produzione di Menarini biotech per iniziare gli studi clinici. Qualora dovessero dare buoni risultati, come tutti noi ci aspettiamo, entro la prossima primavera/estate dovremmo avere una cura efficace per il Covid-19.

E come farete, eventualmente, per produrre e distribuire sufficienti dosi, qualora il Covid-19 dovesse tornare ai livelli della scorsa primavera?

Intanto, partiremo dall’Italia. Sia perché è un progetto italiano, sia perché questo ci consente di abbattere i tempi rispetto alla procedura europea attraverso l’Ema. Il Dr. Rino Rappuoli sta già discutendo con Aifa e Iss per valutare le modalità con cui procedere e le quantità statistiche di cui avvalersi per la sperimentazione. Solo successivamente alla conclusione della fase italiana, passeremo alla condivisione del processo clinico con l’Ema per l’uso in Europa e con le altre agenzie, come la Fda statunitense, per l’uso in tutto il mondo. Ovviamente in quel caso vaglieremo anche con quali partner procedere per garantire una produzione e distribuzione sufficiente per soddisfare la domanda a livello globale.

In quanti altri puntano sugli anticorpi monoclonali?

In Italia, per quanto ne sappiamo, solo due sono a livello di sviluppo. Ce ne è anche un terzo come partecipazione alla fase di studi clinici; Massimo Galli del Sacco ha annunciato che prenderà parte, infatti, a degli studi clinici per anticorpi messi a punto in America. Ma non si tratta quindi di un progetto nazionale. In Italia c’è quindi il progetto della Fondazione TLS a Siena coordinato da Rino Rappuoli e un progetto di Tor Vergata, che si basa sull’utilizzo di anticorpi scelti all’interno di una grande libreria esistente di anticorpi canadese.

E nel mondo, invece?

Ci sono fra 10 e 15 progetti alternativi, fra cui quello della farmaceutica Eli Lilly, già nella fase 3 e sulla carta più avanti di tutti. Poi c’è Regeneron, che ha pubblicato dati intermedi interessanti, e che li sta somministrando a Trump. Poi ci sono altre iniziative; la maggior parte appartengono a big pharma, le altre a ricercatori universitari. Fra queste, la più nota è quella dell’università di Utrecht, che però sviluppa anticorpi a partire da quelli delle cavie, i cosiddetti topi umanizzati.

Sappiamo che gli anticorpi monoclonali sono utilizzati anche per altre patologie. Quali?

In campo oncologico, per combattere cellule tumorali, con anche buoni risultati. Del resto, il tumore ha origine immunologica e la branca dell’immunoncologia ha preso molto piede negli ultimi anni. Ed entro i prossimi 20-30 anni alcuni, se non tutti, i tumori saranno destinati a essere facilmente prevenibili e forse anche a scomparire, perché grazie all’immunoterapia avremo sviluppato vaccini per impedire lo sviluppo di tutte o di una buona parte delle neoplasie.

Ultima domanda, di grande attualità. Mascherine anche all’aperto in buona parte d’Italia. Cosa ne pensa?

Secondo me è giusto. Le mascherine, di fondo, non fanno male a nessuno. Possono solo essere di supporto alla prevenzione. Certo, sta anche al buon senso capire come, quando e dove usarle. Se passeggio in aperta campagna o in montagna è chiaro che non sono necessarie, ma se cammino fra le vie del centro di Roma possono solo essere d’aiuto alla battaglia contro il Covid-19. E poi, ripeto, male di sicuro non fanno.



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