Trump e gli Usa a gamba tesa sul Nagorno-Karabakh e l’Armenia. E Putin contro Trump sul caso di Biden e suo figlio. Necessità e calcolo di Washington e Mosca su due dossier incrociati
Uno-due politico-diplomatico tra Stati Uniti e Russia giocato in ambiti bollenti, le elezioni Usa2020 e il Nagorno Karabakh.
Partiamo dal primo: durante un’intervista sulla prima rete statale, il presidente russo, Vladimir Putin, ha detto che non c’è “niente di criminale” nelle attività lavorative in Russia e Ucraina di Hunter Biden, il figlio di Joe Biden. La dichiarazione è dura, se si considera che attaccare il contender democratico per aver favorito il figlio e per presunti (mai provati) illeciti di questo è una delle linee forti della campagna elettorale trumpiana.
Un argomento su cui il presidente Donald Trump continua a spendersi nonostante un tentativo scoordinato di fare pressioni su Kiev affinché promuovesse indagini contro i Biden gli sia costato la procedura di impeachment. La storia non esiste, come dice Putin e come testimonia quanto avvenuto all’interno del Wall Street Journal, dove nuove ma poco consistenti informazioni erano state fatte arrivare recentemente: una volta analizzate il giornale ha deciso di non occuparsene — e i nuovi sviluppi sono stati invece sparati dal New York Post, giornale sempre della galassia Murdoch che ha una linea pro-Trump più spregiudicata.
Quella del capo del Cremlino è una posizione velenosa, necessaria per sganciarsi in parte dalla vicenda (Trump ha tirato in ballo rapporti tra Hunter Biden e la famiglia del sindaco di Mosca, intimo di Putin) e calcolata per non creare eccessivi sbilanciamenti pro-Trump in una fase incerta del futuro politico americano. Per l’invasione di campo, il russo — che è apparso più freddo del solito nei riguardi di Trump — ha giocato sul coinvolgimento di Mosca e dello spazio ex-sovietico, come lui considera l’Ucraina, sulla vicenda-Biden. Un’interferenza nel rush finale del dibattito biblico statunitense sulle presidenziali che trova per questo giustificazioni, ma che forse si ricollega un’altra invasione di campo.
Nella serata di ieri, quasi contemporaneamente alla messa in onda dell’intervista al presidente russo, il dipartimento di Stato americano ha diffuso una dichiarazione di cessate il fuoco per scopi umanitari sul Nagorno-Karabakh. Accordo (temporaneo) raggiunto grazie alla mediazione che il segretario di Stato, Mike Pompeo, ha fatto durante incontri tra colleghi armeni e azeri. Il dossier è considerato dal Cremlino uno di quelli a controllo esclusivo in cui (al di là delle formalità diplomatiche) non si accetta la presenza di attori se non autorizzati. Nel caso, lo è la Turchia (protettrice azera), con cui la Russia vuol gestite la partita, non lo sono gli Usa.
Tanto più se si considera che poco più tardi, sempre domenica sera, il presidente Trump ha detto (durante un rally elettorale in New Hampshire) che gli “armeni sono persone incredibili” che stanno “fighting like hell” per la loro terra contro gli azeri. Una dichiarazione che scombussola il quadro: si pensi che l’Armenia aspetta qualcosa del genere detta da Mosca, con cui condivide accordi di cooperazione e un’alleanza militare, ma finirà ha trovato una risposta freddina e un paio di micro-intese su cessare il fuoco umanitari sempre violati (come forse finirà quello made in Usa).
La Russia non si sta sbilanciando perché non vuole inimicarsi Baku e intende lasciar tempo al tempo con la Turchia (che ancora spinge dietro all’attacco azero e forse ha già fissato gli obiettivi con Mosca, per questo le costanti violazioni del cessate il fuoco ipoteticamente vivente non sono riprese con rimprovero). Allo stesso tempo, Washington dovrebbe essere riconducibile a un asse con l’Azerbaigian in un rapporto potenza-cliente, ma le parole di Trump si spostano (come spesso accade) da una linea tracciabile.
In ballo, oltre alla necessità di capitalizzare in ambito elettorale il cessate il fuoco raggiunto dalla diplomazia americana, c’è anche il calcolo strategico secondo cui occorre contenere l’exploit turco (Ankara sta vivendo la guerra e conquistando influenza nel Caucaso). Inoltre, la comunità armena negli Stati Uniti (come altrove) è coesa, radicata e forte. Sono consensi che è bene tenere per sé (come insegna la filo-trumpiana Kim Kardashian, che ha donato 1 milione di dollari all’autorità amministrativa dell’Artsakh, nome ancestrale con cui le persone di origine armena come lei chiamano il Nagorno-Karabakh).
(Foto: Twitter, @realdonaldtrump, Kardashian in udienza nello Studio Ovale a maggio 2018)