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Perché Mark Esper è pronto a mollare Trump

Il segretario alla Difesa che ha sempre tenuto un profilo basso, ascoltando gli ufficiali del Pentagono anche contro le volontà del presidente, sarebbe pronto a mollare Trump al di là del risultato di Usa2020

NBC, ABC, CBS, hanno tolto l’audio al presidente Donald Trump mentre diffondeva teorie cospirative su brogli elettorali ai suoi danni durante una conferenza stampa dalla Casa Bianca. È un momento simbolico di Usa2020, sia la violazione del tempio della democrazia statunitense per la diffusione di ipotesi eversive infondate, sia perché i media americani hanno deciso di censurare il commander-in-chief, ormai apparentemente fuori controllo.

Il Partito repubblicano sta via via prendendo le distanze e non segue il proprio candidato — e presidente — per quanto concerne le dichiarazioni su brogli e complotto ai suoi danni. Il conteggio delle schede non è ancora ultimato, ma quel che Trump sta facendo sembra andare pericolosamente oltre la (ormai prossima) sconfitta contro il democratico Joe Biden. È l’estremizzazione della polarizzazione politica americana, un elemento che non passerà dopo questi giorni tumultuosi, ma resterà come faglia nel tessuto socio-culturale statunitense.

Anche tra i collaboratori più stretti c’è perplessità. Tra situazioni tragicomiche — come la telefonata di uno dei suoi uomini che gli ha suggerito di smettere di dire “stop the counts”, fermate lo scrutinio, perché in quel modo avrebbe vinto Biden — escono le prime informazioni su dimissioni anticipate. Il nome che circola tra i media è quello del capo del Pentagono, Mark Esper: intenzionato a mollare Trump, avrebbe già preparato la lettera di dimissioni secondo tre fonti di NBC News (poi corroborate da altri media). Non è inusuale che questo succeda, e solitamente serve per lasciare mani libere al presidente rieletto per un rimpasto, ma in questo caso c’è da ricostruire il trascorso.

Nominato poco più di un anno fa, Esper, come ancora di più il successore Jim Mattis, ha sempre ascoltato molto i Generali (si potrebbe dire che entrambi li abbiano ascoltati quasi più della Casa Bianca). Trump non ha mai avuto un rapporto eccezionale con loro, perché quasi sempre hanno cercato di reindirizzare la sua presidenza su binari di normalità. Da qualche settimana, i media più informati come il Washington Post danno Esper — che il presidente chiama “Yesper”, con un soprannome che sembra sia stato conferitogli da funzionari della difesa che credevano che il segretario non sarebbe andato abbastanza lontano nel resistere alle decisioni più controverse del presidente — in uscita dall’amministrazione.

E già a fine agosto, durante una conferenza stampa, Trump rispose a una domanda di un giornalista — che chiedeva se fosse sul punto di “licenziare” Esper — che lui è sempre sul punto di licenziare chiunque, e prima o poi lo fa (un’allusione al programma “The Apprentice”, un reality show in cui Trump licenziava via via tutti i suoi collaboratori, e l’ultimo che restava vivo vinceva). Il principale dei motivi al fondo della crisi tra i due è la linea molto cauta del segretario durante la lunga estate di disordini: il presidente voleva l’intervento dei militari per reprimere la folla degli anti-trumpiani scesi in strada a protestare (melassa multiforme che ha coinvolto anche fazioni violente), mentre Esper ha sempre avallato le posizioni dei generali che chiedevano di non coinvolgere il Pentagono in faccende di sicurezza interna.

Il segretario viene dal mondo militare (con cui Trump ha avuto sempre poco feeling) e ha cercato come sempre di tenere un profilo basso. Ha costantemente schivato le polemiche pubbliche, sebbene in alcune occasioni abbia (con rispetto gerarchico) preso posizioni diverse dalla Casa Bianca. Per esempio, Esper si è sempre mostrato pubblicamente indossando la mascherina, sottolineandone l’importanza e invitando le truppe ad attenersi strettamente alle disposizioni dei tecnici sanitari, attaccati invece da Trump mentre cercava di minimizzare gli effetti della pandemia anche dopo essere stato contagiato. In un articolo di due settimane fa, il New York Times si riferiva a Esper come “dead man walking”, espressione con cui si accompagna chi è diretto verso la condanna a morte. Il suo destino è già scritto.

 


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