Resa armena nel Nagorno-Karabakh. La Russia porta Baku e Erevan alla firma di un accordo di tregua. La Turchia è parte dell’intesa, con gli azeri che escono vincitori e gli armeni dell’Artsakh che annunciano vendetta
Dopo sei settimane di combattimento, e dopo vari tentativi vani di cessate il fuoco, c’è un accordo più concreto per fermare la guerra nel Nagorno-Karabakh. Dalle 22 di ieri sera, l’intesa firmata da Russia, Armenia e Azerbaigian è entrata in vigore.
Annunciata su Facebook dal primo ministro armeno, Nikol Pashinyan, più che uno stop alle armi sembra una resa di Erevan, per questo pare più solida delle situazioni precedenti. Sostanzialmente l’accordo è frutto della situazione sul campo: una presa d’atto della superiorità azera, e dell’avanzata delle forze di Baku.
Sembra molto simile a una condizione già nota, frutto di un pre-accordo tra Turchia (assistente politico-militare dell’Azerbaigian) e la Russia, che tecnicamente dovrebbe essere alleata dell’Armenia, ma ha sempre rivendicato una posizione super-partes per non guastare le relazioni con l’asse culturale turco-azero (che ultimamente aveva trovato l’appoggio anche dell’Iran).
Per il presidente dell’Azerbaijan, Ilham Aliyev, quella firmata ieri sera è “un punto cruciale” per la soluzione del conflitto, e chiaramente non intende gli scontri in corso ma l’intero dossier del Nagorno-Karabakh — in mezzo al Caucaso, geograficamente continuo all’Armenia, abitato da una maggioranza di etnia armena, il territorio è sotto amministrazione speciale della Repubblica dell’Artsakh (si chiama così dal 2017) ed è internazionalmente riconosciuto come parte dell’Azerbaigian, come i sette distretti circostanti occupati dagli armeni; uno status quo bloccato dalla guerra degli anni Novanta.
Tant’é che sia la dichiarazione di Aliyev che l’accordo sono arrivati poco dopo che su alcuni edifici di Shushi si sono viste garrire le bandiere azere. La Gerusalemme del Karabakh inferiore, abitata prima degli anni Novanta dall’80 per cento di azeri, è stata conquistata dagli azeri, segnando sul campo il passo definitivo che ha probabilmente portato Pashinyan ad accettare la resa (una sorta di rivincita per il presidente azero, dopo che nel 1994 suo padre era stato costretto ad accettare un armistizio che portava gli armeni al controllo di quel territorio semi-autonomo e costringeva 750mila azeri a lasciare l’enclave come profughi).
Che cosa è cambiato in questi trent’anni? Baku ha investito nelle infrastrutture energetiche, ottenendo da queste un boom economico legato allo sfruttamento dei giacimenti: proventi investiti poi anche nel rafforzamento delle Forze armate. Rispetto a 30 anni fa, l’Azerbaigian è una nazione ricca e forte, che nella ripresa del conflitto (il 27 settembre) è stata in grado di portarsi subito dietro l’assistenza turca. Ankara rivendica una continuità culturale con Baku, che è anche un ottimo acquirente di armamenti e un moltiplicatore di influenza.
Non solo: i combattimenti di queste settimane hanno dimostrato che gli azeri sono centrali per le partnership regionali nel Caucaso, come espressamente detto dalla Russia e come segue dallo spostamento d’asse iraniano, ma sono anche fondamentali partner internazionali. Israele per esempio ha fornito assistenza logistica ai militari di Baku nel Karabakh (gli azeri sono clienti militari anche dello stato ebraico); l’Europa ha sempre tenuto una posizione intermedia per non perdere contatto con entrambi i fronti (sempre considerando che i rifornimenti di prodotti energetici azeri sono cruciali per diversi paesi, come l’Italia).
Mentre l’Unione europea era concentrata sulla pandemia, e gli Stati Uniti presi dal delicato processo elettorale, nel Caucaso s’è dimostrato palesemente l’andamento delle relazioni internazionali senza la presenza delle democrazie occidentali. La legge del più forte ha predominato. La Turchia, in netta crisi economica, ha sfruttato terreno per proiettassi all’estero e per usare la coopetition creata con la Russia.
Dopo l’accordo, a Erevan le persone sono scese in strade per protestare contro quella che Pashinyan ha definito una decisione “incredibilmente dolorosa per me e per il nostro popolo”, ma frutto di “un’attenta analisi militare”; un tradimento per i suoi cittadini. Lo stesso è accaduto a Baku, quando Aliyev ha vantato il successo su Shushi; una rivincita, una vendetta mossa da un nazionalismo sempre più spinto su cui Ankara ha un ruolo propagandistico.
È del tutto probabile che la vittoria azera non fermerà le violenze (almeno non nel medio.corto termine). Potrebbe succedere il remake, a senso inverso, dell’esodo degli anni Novanta, con l’Armenia che soffrirà l’ingresso di profughi. Una circostanza che inasprirà il contesto socio-culturale e creerà supporto per le forze dell’Artsakh, che già hanno promesso operazioni di guerriglia. Il territorio del Nagorno-Karabakh è montuoso, a tratti impervio: ottimale per nascondere guerriglieri in grado di compiere incursioni e azioni mirate. Molto dipenderà anche dalle attività di peacekeeping interessata che turchi e russi condurranno e dalla loro capacità di tenere ferme le armi.
(Foto: President.az)