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Diritti umani e democrazia. Cosa non va nell’accordo Ue-Cina

Merkel e Macron accelerano per l’accordo Ue-Cina. Ma dalle implicazioni geopolitiche ai diritti umani passando per il silenzio calato sui negoziati, molti punti non tornano. L’opinione di Laura Harth (Global Committee for the Rule of Law “Marco Pannella”)

Era nell’aria, come un cattivo presagio, l’accelerata finale della Germania sull’Accordo globale sugli investimenti (Cai) tra l’Unione europea e la Repubblica popolare cinese. Appena una settimana fa il ministero degli Esteri tedesco rassicurava gli attivisti per i diritti umani che i punti di discordia erano ancora troppi. Ma la cancelliera Angela Merkel ha lanciato un ultimo tour de force prima di concludere la sua ultima stagione alla presidenza di turno del Consiglio dell’Unione europea. Così, dopo l’affermazione da parte della Commissione europea che l’accordo sul tavolo è as good as it gets e una ritrovata alleanza franco-tedesca sulla questione, giovedì pomeriggio sono partite le telefonate per le capitali europei a sondare le disponibilità a sottoscrivere l’accordo, seguite da una riunione dei rappresentanti permanenti dei 27 Stati membri presso il Consiglio europeo venerdì mattina.

Dalle informazioni di stampa — con fonti “autorevoli” ma sempre anonime — la discussione si sarebbe svolta in modo “sereno e sostanzialmente positivo” e ci sarebbe un accordo di principio tra gli Stati membri sebbene rimangono ancora aperti alcuni punti dolenti. A partire dal rispetto dei diritti del lavoro su cui, secondo fonti del South China Morning Post, “la Cina deve dimostrare un forte impegno verso la ratifica delle convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro sul lavoro forzato”. Si prevederebbero ancora mesi di negoziati per limare gli ultimi dettagli, ma pare ci sia un consenso che l’opportunità di concludere è unica e non va persa, ragion per cui si ipotizza anche l’opzione della procedura fast-track evitando il passaggio nei Parlamenti nazionali. Una corsia preferenziale, insomma, per la Repubblica popolare — nonché genocidaria — cinese mentre i negoziati per un accordo post-Brexit con il Regno Unito sono in stallo.

La vicenda sa di tragicommedia grossolana. Non solo per quanto riguarda i popoli martoriati, rinchiusi, sterilizzati, perseguitati e silenziati nello Xinjiang, Tibet, Hong Kong, Mongolia meridionale e nella Cina intera. Ma anche per l’immagine che l’Unione europea a guida tedesca sta proiettando nel mondo, proprio a pochissime settimane dell’insediamento ufficiale del presidente eletto Joe Biden alla Casa Bianca. Come se volessero in fretta e furia anticipare — o forse minare, com’è senz’altro il caso per le concessioni fatte all’ultimo minuto da parte cinese — quella “gloriosa stagione” di un rafforzamento nel rapporto transatlantico anche nel confronto con la Cina. La famosa “terza via di equidistanza” prospettata dalla Merkel all’opera.

Il modus operandi appare come un caso da manuale su tutte le criticità dell’assetto europeo attuale. Critiche che gli stessi addetti all’accordo con la Cina cercano di ripudiare ogni giorno: il ruolo dell’Unione europea nel mondo e in particolare la sua credibilità in materia di stato di diritto e diritti umani, il deficit democratico dell’Unione europea e la burocrazia non-trasparente di Bruxelles che regna sovrana in sintonia con Berlino e, se possibile, Parigi.

Torniamo un attimo all’inizio della settimana appena trascorsa. Escono gli Shanghai Files, prova delle politiche dichiarate di Pechino circa il controllo sempre più stretto dell’apparato del partito unico (comunista) sulle aziende private, siano cinesi o straniere — pratica già denunciata anni fa da dirigenti aziendali europei. Viene inoltre pubblicato il nuovo rapporto del dottor Adrian Zenz con prove di veri e propri schemi di schiavitù della popolazione uigura nella raccolta a mano del 20% del fabbisogno mondiale di cottone. E sebbene questa ulteriore documentazione dagli orrendi crimini contro la popolazione musulmana trova scarso spazio sui media, il Parlamento europeo se ne occupa immediatamente nella sua sessione plenaria di giovedì mattina, con una serie di dichiarazioni inequivocabili e soprattutto una chiarissima risoluzione approvata con 604 voti a favore contro 20 contrari. Andrebbe letta da tutti per quanto pone delle questioni fondamentali in ambito tecnologico che riguardano anche nostro Paese.

Il Parlamento chiede espressamente l’istituzione di sanzioni contro i responsabili governativi e aziendali cinesi per le pratiche di lavoro forzato messo in atto nella Repubblica popolare cinese e dice nero su bianco che “è del parere che l’Accordo globale sugli investimenti con la Cina debba includere impegni adeguati per il rispetto delle convenzioni internazionali contro il lavoro forzato; considera, in particolare, che la Cina dovrebbe pertanto ratificare le convenzioni dell’OIL nn. 29 e 105”.

Il Parlamento dimostra quindi chiaramente di aver appreso la lezione sulle promesse fatte della Cina negli ultimi anni. E cioè che il più delle volte queste non valgano assolutamente nulla per la leadership del Partito comunista cinese. Basta vedere come è stato e viene trattato l’accordo internazionale sulla governance di Hong Kong: carta straccia per Pechino. Giustamente, quindi, il Parlamento europeo non chiede un’ulteriore “impegno a”, ma un’azione diretta e preliminare da parte cinese prima di sottoscrivere un eventuale accordo. Come abbiamo visto sopra, però, la Commissione non segue lo stesso approccio, ben sapendo di poter ottenere al massimo una vaga promessa che — come spesso accade— rischia di non essere mantenuta.

Una beffa rispetto a quanto si legge nel Trattato dell’Unione europea circa l’impegno a sostenere concretamente i suoi valori e principi in tema di diritti umani e di stato di diritto in tutte le sue attività con il mondo esterno. Una mossa che peraltro non potrà essere letta che come una vittoria enorme per il presidente cinese Xi Jinping, il quale secondo fonti governative cinesi si è interessato in modo particolare e insolito ai negoziati in oggetto, in cerca disperata di una vittoria propagandistica dopo l’anno disastroso trascorso nonché di una saldatura nei rapporti con l’Unione europea prima della presidenza Biden — nonostante le continue e crescenti repressioni e abusi dei diritti umani in Cina.

Una beffa anche per il Parlamento europeo, ringraziato per il “suo impegno e la sua costanza nell’aumentare la consapevolezza in tema”, ma poi prontamente ignorato nel solito gioco tra Commissione e capitali (principali) europei. Peraltro, si registra un tale assenza di dibattito parlamentare. Che non verrebbe che aumentato se l’Accordo venisse effettivamente fast-tracked, eliminando così anche quel “fastidioso” passaggio democratico nei Parlamenti dei Paesi membri.

È indubbio che se l’Accordo dovesse prevedere in effetti quanto auspicato dall’Unione europea sette anni fa — ma sulla quale gli stessi organi di studio dell’Unione europea rimanevano scettici fino a qualche settimana fa —, sarebbe un passo in avanti rispetto agli attuali accordi bilaterali tra vari Stati membri e la Repubblica popolare cinese. Purtroppo, non ci è dato sapere se quanto auspicato in effetti sia stato raggiunto, dove sono state fatte delle concessioni, e quali punti fondamentali mancano. Il tutto è e rimane coperto dal segreto più assoluto, rendendo il dibattito pubblico completamente impossibile. Visto il ruolo assunto dalla Repubblica popolare cinese e le enormi questioni geopolitiche in ballo in questo momento, visti gli obblighi dell’Unione europea in materia di diritti umani e la repressione recente di tali valori da parte della Cina ma non limitata al suo territorio, visto il diritto dei cittadini a poter partecipare a un dibattito pubblico e ancor più il diritto che dovrebbe essere sacrosanto dei loro rappresentanti eletti — sia a livello europeo che nazionale — di poter visionare e informare adeguatamente, pare evidente che il modus operandi nel caso concreto non può che lasciare forte perplessità e indurre ad alcuni questioni fondamentali.

Eccole. Perché questa paura di un dibattito informato e pubblico? Perché la segretezza e la voglia evidente di tenere fuori dalla questione i Parlamenti? Perché questo regalo al regime cinese proprio ora, nonostante le “gravissime preoccupazioni” circa la repressione onnipresente? E soprattutto: perché questa fretta, Frau Merkel?

Sono domande a cui speriamo il Parlamento europeo, forse l’ultimo bastione per i diritti umani e la democrazia europea in quel che si annuncia come uno possibile scontro tra Istituzioni europei, potrà cercare risposte. E soprattutto ottenerle.



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