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Digital tax italiana, meriti e torti della strigliata Usa. Scrive da Empoli

Un durissimo rapporto dell’Ufficio del rappresentante per il commercio statunitense boccia l’imposta sui servizi digitali italiana. Dai problemi fiscali ai settori inclusi, Stefano da Empoli, presidente dell’Istituto per la competitività (I-Com) spiega perché quel documento non è da sottovalutare

Proprio nei giorni in cui l’attenzione del mondo era rivolta a Washington per ben altre ragioni, dalla capitale americana sono arrivate due novità, apparentemente contraddittorie, sul dossier relativo alla tassazione digitale.

Da un lato il Governo Usa ha sospeso le ritorsioni commerciali nei confronti dell’imposta sui servizi digitali in vigore dallo scorso novembre in Francia e che ricade sproporzionatamente su imprese statunitensi. Ritorsioni che avrebbero comportato, a partire proprio dal 6 gennaio, l’imposizione di un dazio del 25% su beni importati come borse e cosmetici per un valore pari a 1,3 miliardi di dollari.

Dall’altro, è stato pubblicato il rapporto dell’Ufficio del rappresentante per il commercio statunitense sull’imposta sui servizi digitali italiana, approvata dalla legge di bilancio 2020 e che dovrebbe essere versata entro metà febbraio per lo scorso anno di imposta (pari al 3% del fatturato su attività di pubblicità online, marketplace digitali e social media).

Sulla digital tax italiana, il giudizio del governo americano è durissimo e, in virtù dei profili di discriminazione e irragionevolezza riscontrati, rappresenta un primo importante passo verso possibili ritorsioni commerciali (nel mirino, nel nostro caso, sarebbero soprattutto vino e prodotti alimentari). Dunque, in apparenza un segnale di appeasement verso la Francia che si accompagna a un possibile inasprimento nei confronti dell’Italia. In realtà, non c’è nessuna schizofrenia.

IL RAPPORTO USA

In primo luogo, secondo quanto affermato dallo stesso governo americano, si vogliono far rientrare i provvedimenti nei confronti della Francia all’interno di una strategia unitaria nei confronti di tutti i Paesi che hanno adottato o stanno adottando provvedimenti analoghi, in primis Italia, Regno Unito, Turchia, Austria, Brasile e Indonesia.

Inoltre, anche se non viene detto esplicitamente, è probabile e anche comprensibile che si voglia lasciare all’Amministrazione entrante maggiore spazio di manovra per cercare se non la pace almeno una tregua in attesa che si riattivi a breve il tavolo negoziale a livello OCSE/G20, abbandonato dagli Stati Uniti nel giugno scorso.

Tanto più che almeno su questo dossier, come abbiamo già avuto modo di dire su queste colonne, non dobbiamo attenderci particolari sconti dall’amministrazione Biden, come testimoniano alcune recenti prese di posizione chiare da parte di influenti parlamentari dem. Ad esempio, Ron Widen, il democratico di maggior peso nella Commissione Finanze del Senato, ha recentemente definito discriminatoria la digital tax francese, alla quale somiglia molto quella italiana (entrambe si rifanno alla proposta della Commissione europea del marzo 2018, che non passò per l’opposizione di alcuni Stati membri come Irlanda, Svezia e Danimarca).

LE POSIZIONI IN CAMPO

In attesa di capire quali possano essere gli sviluppi transatlantici nei prossimi mesi, è senz’altro utile capire meglio le posizioni contenute nel rapporto USA, che con ogni probabilità saranno confermate nel merito dall’Amministrazione Biden.

Innanzitutto, l’analisi serve a stabilire se e con quali modalità è attivabile la sezione 301 del Trade Act statunitense, tesa a rispondere ad azioni, politiche o prassi commerciali di un Paese estero che danneggino gli Stati Uniti.

In particolare, rispetto all’imposta sui servizi digitali, si intende verificare se essa preveda condizioni discriminatorie, irragionevoli e che pongano oneri aggiuntivi o limitino gli scambi con gli USA. Nella fattispecie, Washington vuole capire se un’imposta che si applica in principio erga omnes mascheri quello che di fatto verrebbe a configurarsi come un dazio nei confronti delle imprese americane che offrono servizi digitali a soggetti esteri.

La risposta che si può leggere nel report è pienamente affermativa, per tutti i possibili capi di imputazione.

DIGITAL TAX, LE CRITICHE DA WASHINGTON DC

In primo luogo, l’imposta viene giudicata discriminatoria nei confronti delle imprese statunitensi. Secondo l’analisi condotta dal governo Usa, l’imposta italiana si applicherebbe a 43 imprese, di cui 27 statunitensi, 3 italiane (tutte operanti nella pubblicità digitale) e le rimanenti 13 di altri Paesi.

In altre parole quasi i due terzi (oltre il 62%) delle imprese soggette all’imposta sarebbero americane. Leggermente meglio della Francia, che inizialmente aveva disegnato la propria digital tax per includervi solo un’impresa nazionale salvo poi trovare un escamotage per escludere anche quella.

Ma, come sottolinea il report, difficile immaginare che anche nel caso italiano la scelta della doppia soglia di fatturato (750 milioni di euro complessivi a livello globale e 5,5 milioni a livello domestico nelle attività soggette all’imposta) e la lunga lista dei settori esclusi non sia stata fatta proprio con lo scopo di massimizzare l’applicazione alle imprese estere e, tra queste, a quelle americane.  Ma le censure di Washington non finiscono qui.

I PROBLEMI FISCALI

Oltre ad essere chiaramente discriminatoria, secondo il Governo USA la digital tax italiana è irragionevole perché viola principi fiscali consolidati a livello internazionale (affermati a livello OCSE e attuati in una miriade di accordi bilaterali, come quello che vige tra Italia e Stati Uniti).

In primo luogo, si applica ai ricavi e non ai profitti (come invece fanno le classiche imposte societarie, a partire dalla nostra Ires) o tutt’al più alle vendite o al consumo (come ad esempio l’Iva).

In questo modo, potrebbe risultare gravemente distorsiva perché si applica nello stesso modo a imprese con livelli di profittabilità molto diversi (e d’altronde non si può dare per scontato che tutte le imprese digitali facciano profitti estremamente elevati, dati i diversi modelli di business e tenendo conto che un’imposta sui ricavi del 3%, pur sembrando piccola, porterebbe a oneri tributari superiori a quelli dell’IRES per livelli di profitto fino al 12,25% del fatturato, un traguardo raggiunto da una fetta relativamente piccola di aziende). Inoltre, pone forti rischi di doppia imposizione (in poche parole, una stessa attività potrebbe essere soggetta a tassazione in più di una giurisdizione).

I COSTI INDIRETTI

I timori del Governo americano non si fermano ai soli costi fiscali diretti ma sottolineano anche quelli indiretti, da attribuire alla compliance e in particolare alla revisione della contabilità e dei controlli societari richiesti (ad esempio per tenere conto della localizzazione degli utenti, che diventa il criterio chiave per determinare la base imponibile).

Costi di compliance, e qui forse l’accusa di Washington fa ancora più male, aggravati dal ritardo con il quale l’Agenzia delle Entrate ha pubblicato lo schema di provvedimento per l’applicazione dell’imposta, varato solo lo scorso 16 dicembre (con la possibilità di inviare osservazioni fino al 31 dicembre). Per un’imposta in vigore dal primo gennaio 2020 e la cui prima annualità dovrebbe essere versata entro il 16 febbraio 2021, si tratterebbe di fatto di un’applicazione retroattiva, un’altra palese violazione dei principi tributari alla base di un’amministrazione fiscale moderna, in grado di instaurare rapporti civili con i contribuenti.

QUALCHE DUBBIO…

Fin qui le censure del rapporto statunitense, che ci paiono in larga parte difficilmente contestabili. E alle quali vanno sommati ulteriori dubbi, rilevanti dal punto di vista nazionale. Come è stato già rilevato, si potrebbero facilmente innescare meccanismi di traslazione dell’imposta su consumatori e imprese italiani (il che non appare una buona cosa, specie di questi tempi) nonché porre questioni di privacy inerenti la geolocalizzazione degli utenti (che è peraltro un aspetto particolarmente critico anche sotto il profilo della compliance). Inoltre, aggiungiamo noi, la definizione di soglie può creare effetti distorsivi tali da rendere il mercato meno competitivo e potenzialmente limitare l’ingresso o la crescita dimensionale di player italiani.

Con questo non si vuole di certo negare che ci sia urgente bisogno di una revisione dei criteri di imposizione societaria di fronte all’immaterialità e all’estrema internazionalizzazione dell’economia digitale, ma, a seconda dell’approccio scelto, i risultati potrebbero essere radicalmente diversi.

LE PROPOSTE NEL QUADRO OCSE/G20

L’unico in grado di rafforzare la crescita in ambito europeo, non solo con nuove risorse (possibilmente da destinare al bilancio comune) ma grazie alla maggiore certezza giuridica, è il Quadro inclusivo che si sta sviluppando in sede OCSE/G20 con la partecipazione di 135 Paesi membri e che ha portato alle recenti proposte sui due pilastri della possibile riforma, il primo dedicato all’allocazione dei profitti e il secondo a una forma di minimux tax globale.

L’OCCASIONE PER L’ITALIA

Naturalmente non sarà facile raggiungere il consenso necessario entro il 2021, soprattutto sul primo pilastro che inevitabilmente comporterebbe il trasferimento di risorse significative (valutabile potenzialmente in diverse decine di miliardi di euro) da alcuni Paesi ad altri.

Avendo da poco assunto la presidenza del G20, l’Italia potrebbe giocare un ruolo fondamentale. Ammesso che riesca a passare dal campo degli imputati ad uno davvero super partes, in grado di mediare efficacemente tra le opposte sponde dell’Atlantico per trovare una soluzione a un problema che certamente esiste. Ma per il quale non ha senso imboccare scorciatoie palesemente sbagliate. In nome di un gettito che con ogni probabilità sarà decisamente inferiore ai 708 milioni di euro previsti dalla legge di bilancio 2020.



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