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Libano, la crisi e le opportunità (secondo l’Onu)

Un report Onu inquadra il Libano come uno dei Paesi con maggiori capacità di sviluppo del Mediterraneo, ma Beirut (a sei mesi dall’esplosione che ha squarciato il porto e mostrato i mali del Paese al mondo) è impantanato nelle sue incoerenze

Il Libano è un Paese in profonda difficoltà, a causa di crisi aggravate che si sono manifestate tutte insieme nell’evento simbolico che la grande esplosione al porto di Beirut della scorsa estate ha rappresentato, tuttavia sembra possedere le capacità produttive necessarie che gli possono consentire di svilupparsi e superare l’attuale stallo.

È questo quello che emerge dal Productive Capacity Index (PCI) redatto dalla United Nations Conference on Trade and Development (UNCTAD). Il report mette Beirut al primo posto tra i paesi del Mediterraneo meridionale e orientale.

L’indice – con cui sono stati analizzati i 193 Stati dell’Onu – in sostanza permette di misurare la capacità dei Paesi nel realizzare la loro trasformazione socio-economica. Queste caratteristiche messe insieme determinano la capacità del Paese “di produrre beni e servizi che gli consentano di crescere e svilupparsi” definendo le risorse produttive, le capacità imprenditoriali, i collegamenti di produzione.

I dati sono intesi come “una guida pratica e uno strumento diagnostico” che il Paese può utilizzare per sviluppare o attuare politiche commerciali e di sviluppo, come spiegato da Paul Akiwumi, direttore della Divisione UNCTAD per l’Africa e i Paesi meno sviluppati.

Il Libano, che affronta la sua peggiore crisi economica negli ultimi 30 anni, è attraversato da una profonda tensione sociale che è complicata dal Covid. Nei giorni scorsi le organizzazioni umanitarie locali e internazionali hanno lanciato l’allarme sui rischi che il numero finora estremamente ridotto di vaccini (28 mila, inviati dalla Pfizer e comprati con i fondi della Banca mondiale), rispetto a una popolazione residente di oltre sei milioni di persone, possa indurre la classe politica settaria libanese a gestire la campagna di vaccinazione secondo pratiche clientelari e poco trasparenti.

Una triste caratteristica della gestione generale, che ha indebolito il sistema-paese libanese; caratteristica su cui grava anche il peso della formazione politico-militare Hezbollah, che seguendo l’esempio della Guida suprema iraniana aveva chiesto – per bocca del leader Hassan Nasrallah – di non accettare i vaccini occidentali creando un ulteriore argomento di tensione sociale: la settarizzazione della pandemia.

Il gruppo, collegato a doppio filo con i Pasdaran, vive come uno Stato nello Stato ed è incrostato ai gangli del potere: ma è anche una entità che si muove vicino alle persone, fornendo assistenza (come nei primi mesi della pandemia per esempio). Un modo con cui ottiene di ritorno favori e consensi, carte attraverso cui riesce a giocare un ruolo formale nel sistema politico e istituzionale del Libano.

Il 4 febbraio, nel giorno in cui si commemorava tra l’opinione pubblica i sei mesi dall’esplosione al porto che ha mostrato l’implosione libanese, Lokman Slim, un intellettuale piuttosto noto nel Paese, è stato ritrovato con diversi proiettili in testa all’interno della sua auto nel sud del Libano – feudo di Hezbollah.

Dietro la morte di Slim i sospetti si sono rivolti subito verso la milizia sciita, pesantemente criticata dall’intellettuale – che a sua volta Hezbollah chiamava “lo sciita delle ambasciate” a causa delle sue frequentazioni con i diplomatici stranieri. Su queste speculazioni non ci sono informazioni e non è chiaro il cui prodest.

Slim non era così potente da poter creare problemi al gruppo, però c’è chi sospetta si sia trattato di un messaggio incrociato da leggere nell’ambito delle trattative sul nucleare iraniano. Che sia una mossa locale – contro un dissidente per mettere a tacere le voci contrarie – o di valore internazionale, l’assassinio è una delle varie dimostrazioni di quanto il percorso per rendere fattivo il risultato del report PCI sia complesso per Beirut e per i libanesi.

Proprio il 4 febbraio, le diplomazie di Francia e Stati Uniti hanno diffuso un comunicato congiunto per chiedere alla classe politica libanese di impegnarsi nella formazione di un governo “credibile” quanto “efficace”. Parigi chiede a Washington realismo massimo, sforzandosi di accettare l’inclusione di Hezbollah nel processo di ricostruzione istituzionale, economico e sociale. Washington ne vuole il disarmo, perché considera l’organizzazione un gruppo terroristico – dato che è considerata responsabile di svariate azioni assassine e terroristiche.

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