L’amministrazione Biden ha scelto di partire dall’aerospazio per ricucire i rapporti con l’Ue. Di qui a dire che trovare la quadra sarà facile, ce ne corre. Il desiderio di riparare il rapporto danneggiato da Trump è forte, così come la crisi del trasporto aereo indotta dal Covid. Ma Biden ha anche promesso di rinforzare il “buy American” e deve difendere Boeing nella sua roccaforte democratica dello stato di Washington. Il punto di Gregory Alegi
Come due innamorati in crisi, il neo-presidente americano Joe Biden e la sua (quasi) omologa europea Ursula von der Leyen si sono presi una pausa di riflessione. A differenza degli innamorati, non smetteranno di frequentarsi, ma sospenderanno le ostilità e lavoreranno per superare definitivamente i dazi autorizzati dalla World Trade Organization per punire Ue e Usa degli aiuti di Stato concessi ad Airbus e Boeing. Fuor di metafora, i due litiganti hanno deciso di sospendere i dazi per quattro mesi, congelando il malumore causato dall’aver colpito settori che con la tecnologia non c’entrano nulla o addirittura di Paesi che, come l’Italia, nella ventennale vicenda sono stati solo spettatori.
Non è ancora la soluzione politica che il presidente francese Emmanuel Macron aveva chiesto a Biden nella loro prima telefonata ufficiale, ma è un importante segnale della volontà di trovarla. Il segnale politico, giunto non a caso in coincidenza con l’annuncio del ritorno al protagonismo americano sulla scena politica globale (“America is back!”), è forte: l’amministrazione Biden parte dall’aerospazio per ricucire i rapporti con l’Ue, messi in crisi sotto Trump da diversi fattori. Di qui a dire che trovare la quadra sarà facile, ce ne corre.
La vertenza ha radici lontane e ruota attorno al sostegno pubblico che Airbus ha ricevuto per decenni, soprattutto in Francia e Germania, fino a trasformarsi nell’unico competitore globale di Boeing nell’aviazione commerciale. Ad aprire le ostilità furono gli Stati Uniti – al Wto si confrontano Stati, non aziende o persone – ma l’Ue fu pronta a ribattere. Esauriti i ricorsi, entrambe le parti furono al tempo stesso dichiarate vincitrici (ma soprattutto gli Usa) e sconfitte (ma soprattutto l’Ue), con annessa autorizzazione a imporre dazi miliardari: 7,5 miliardi di dollari contro l’Ue (caso DS 316, deciso nell’ottobre 2019), 4 contro gli Stati Uniti (DS 353, ottobre 2020). Cifre enormi, che sotto la presidenza Trump si erano trasformate in munizioni per la propria guerra all’Unione europea, vista come un ostacolo all’affermazione del modello unilateralista, ultra-realista e ultra-nazionalista.
Da scontro industriale, la battaglia Boeing-Airbus si è dunque andata trasformando in battaglia politica, come altri temi solo apparentemente tecnici, dalla privacy dei dati alla qualità dei prodotti alimentari. Con annessi paradossi: il braccio di ferro con l’Ue ha visto Trump difendere in ambito internazionale quegli stessi giganti dell’informatica che sul versante domestico attaccava in quanto filo-progressisti.
Sulla necessità di una soluzione politica, peraltro, l’Europa insisteva da tempo, almeno da quando il Wto aveva assunto le prime decisioni a favore degli Stati Uniti. Gli appelli europei in questo senso si ripetevano a ogni passo delle vertenze, quale che fosse la decisione. Gli Usa li hanno lasciati regolarmente cadere, probabilmente per capire con quali carte si sarebbero seduti al tavolo delle trattative. Qualche approccio non risolutivo c’era già stato, ma ora sembra giunto il momento decisivo e si punta ad andare oltre la pura operazione algebrica per trovare un nuovo equilibrio.
Biden ha due forti incentivi per trovare un accordo. Il primo è il desiderio di riavvicinare l’Europa, ricucendo lo strappo di Trump, che nel suo odio per la Germania (o la Merkel) sosteneva qualsiasi movimento anti-Ue; il secondo, la necessità di salvare l’industria aeronautica civile statunitense, cioè Boeing, che barcolla sotto la tripla botta del caso Max (danni alla reputazione ed economici), del crollo delle vendite a causa del Covid e della necessità di lanciare un nuovo velivolo per la fascia centrale del mercato. In altre parole, l’idea di una qualche forma di sostegno pubblico a Boeing appare oggi meno peregrino di un tempo.
Salvo il problema Max, anche Airbus deve affrontare il crollo del mercato e ripensare il proprio futuro al di là della riuscitissima famiglia A320. L’uscita di scena dell’A380 e il completamento della gamma anche verso il basso grazie a Bombardier pongono problemi di strategia che in passato sono stati risolti con robuste dosi di quei “launch aid” che hanno scatenato tutta la vicenda Wto.
Su questo terreno comune un incontro potrebbe esserci. Biden dovrà però stare attento a non concedere troppo, per non contraddire le sue stesse politiche di “buy American”, addirittura rinforzate rispetto a Trump, e per non rischiare di perdere lo stato di Washington. Questa roccaforte democratica, da sempre sede dell’attività civile Boeing, ha appena perso la linea di produzione dell’avveniristico 787, che d’ora in poi uscirà solo dagli stabilimenti di Charleston, nel South Carolina, che è invece una roccaforte repubblicana, scelto da Boeing anche per la scarsissima tutela sindacale dei lavoratori.
Basteranno quattro mesi per risolvere definitivamente un problema ventennale? Forse no. L’esito più probabile potrebbe essere una nuova proroga, motivata con i passi avanti e la necessità di continuare a trattare. In questo modo nessuno sarebbe costretto a perdere la faccia, ma i dazi resterebbero congelati. Per tornare alla metafora iniziale, gli innamorati riprenderanno a vedersi, mettendo da parte gli aspetti spiacevoli finché non capiranno quanto si vogliano bene davvero. Meglio che niente, ma ancora non siamo all’anello di fidanzamento.