La Libia verso una nuova conferenza internazionale. A Parigi si parlerà di come cercare di completare la stabilizzazione e portare i cittadini al voto evitando ulteriori destabilizzazioni
Il clima che accompagna l’ennesima conferenza internazionale sulla Libia non è dei migliori. La riunione che si apre a Parigi domattina, venerdì 12 novembre, precede di poco più di un mese le elezioni che l’Onu ha fissato per il 24 dicembre – e come già fotografato da Formiche.net la situazione nel Paese, i cui cittadini da dieci anni soffrono le divisioni interne, è tutt’altro che tranquilla. Il processo di stabilizzazione innescato dal cessate il fuoco dell’ottobre 2020 dovrebbe compiersi totalmente con il voto, ma la Libia è frammentata in gruppi di potere che faticano ad accettare un arretramento (inevitabile conseguenza che toccherebbe agli sconfitti in un processo democratico).
Allo stato attuale, il voto stesso, nonostante la scadenza formalizzata anche dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu (risoluzione 2570, dell’aprile 2021), non è scontato che si tenga nella data stabilita. Sebbene fosse una prerogativa del Foro di dialogo politico libico – il sistema negoziale creato in sede onusiana da cui è scaturito l’attuale Governo di unità nazionale. La delicatezza è riassunta nell’offerta di co-presidenza che la Francia ha fatto a Germania e Italia al momento della convocazione della Conferenza. La questione è chiara: la Libia, i suoi attori esterni e i player che dall’esterno muovono i loro interessi tra le vene della crisi del Paese nordafricano (e mediterraneo), devono essere gestiti attraverso un’azione diplomatica compatta da parte dell’Unione europea.
Per questo Parigi, Berlino e Roma, nazioni del blocco che sullo scenario libico hanno maggiore influenza, sono chiamati a parlare sia con i libici che con altri paesi interessati al dossier. Pena la ricaduta nel caos, la potenziale ri-accensione di una stagione conflittuale, e la riattivazione di quelle dinamiche di scontro per procura che hanno caratterizzato apertamente anche l’ultimo anno e mezzo di guerra (aprile 2019 – ottobre 2020). “Le elezioni sono alle porte – ha osservato il presidente francese, Emmanuel Macron – ma le forze che vogliono far deragliare il processo sono in agguato. Bisogna tenere la barra dritta. È in gioco la stabilità del paese”.
Con Francia, Germania e Italia saranno presenti una ventina di nazioni. Tra questi gli Stati Uniti, interessati alla Libia per il quadro di stabilità che taglia l’Africa dal Mediterraneo al Corno, dal Sahel al Golfo di Guinea, con effetti diretti sulla regione mediorientale. Sarà presente là vicepresidente Kamala Harris, la più alta in grado insieme al presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi. Il Cairo, dopo aver sostenuto per anni le posizioni della Cirenaica (per interesse geopolitico e ideologico, contro la Tripolitania), ha preso una via dialogante e si è fatto promotore di iniziative negoziali.
Coinvolti anche i Paesi regionali, dalla Tunisia a Niger e Ciad, chiaramente i più interessati a quanto succede in Libia perché lo subiscono in forma diretta – per questo devono essere parte del dialogo sul dossier, come a inizio anno aveva suggerito l’ambasciatore Pasquale Ferrara in un’intervista su queste colonne. Ferrara ai tempi era inviato speciale dell’Italia per la Libia, appena uscito dall’incarico di feluca ad Algeri; ora ricoprire il ruolo di Direttore generale per gli affari politici e di sicurezza della Farnesina, sostituito come inviato speciale dall’ambasciatore Nicola Orlando, che accompagnerà alla Maison de la Chimie il presidente del Consiglio, Mario Draghi (che prima dell’inizio del meeting avrà un faccia a faccia con Macron all’Eliseo) e il ministro Luigi Di Maio a Parigi.
Tra gli assenti, non è chiaro se ci sarà l’Algeria, che vive una fase di tensione con la Francia, mentre la Turchia ha dichiarato che non intende partecipare a causa della presenza della Grecia, di Israele e dell’amministrazione greco-cipriota: “Se questi Paesi parteciperanno alla conferenza, non è necessario inviare rappresentanti speciali di Turchia”, ha fatto sapere il presidente Recep Tayyp Erdogan. L’assenza della delegazione turca è la nota stonata, perché dopo l’intervento militare al fianco del precedente governo onusiano per respingere l’aggressione manu militari del capo miliziano dell’Est Khalifa Haftar, Ankara ha guadagnato molta influenza a Tripoli.
I militari turchi e alcune centinaia di miliziani siriani spostati dalla Turchia sono ancora presenti in Libia, nonostante i tanti appelli arrivati dall’Onu, dall’Ue e dagli Usa per una loro smobilitazione. La presenza è considerata un elemento destabilizzante (che Ankara difende sulla base di un accordo di cooperazione siglato con il precedente governo) alla pari di quella del Wagner Group sull’altro lato. I contractor privati russi (che spesso il Cremlino usa per il lavoro sporco) sono ancora in diverse aree centro-orientali della Libia, ma Mosca nega collegamenti. Difficile che il ministro degli Esteri Sergei Lavrov faccia progressi su questo tema nella riunione parigina.