Per capire il vero motivo che ha portato la Bielorussia a creare e drammatizzare la crisi migratoria, bisogna rileggerla attraverso gli aiuti diretti (finanziari) o indiretti (tipo alleggerimento delle sanzioni) che Minsk spererebbe di ottenere dall’Occidente per gestire i migranti. L’analisi di Igor Pellicciari, ordinario di Relazioni Internazionali all’Università di Urbino
La crisi al confine bielorusso-polacco ha non solo riproposto la generica questione dei flussi migratori incontrollati, adattata al nuovo scenario di turno.
Ha anche confermato quanto sia pericoloso il cercare affannosamente soluzioni per il fenomeno, prima di averlo compreso a fondo.
Abbiamo già sottolineato come il consolidarsi delle rotte migratorie sulla frontiera esterna a Sud e Sud est dell’Unione Europea sia destinato a rafforzarsi per gli anni a venire, semmai solo aggravato da altre congiunture, ad esempio il ritiro occidentale oggi dall’Afghanistan, domani dall’Iraq.
E come per farvi fronte sia necessario un approccio integrato multilaterale che combini scelte di politica estera, difesa, intelligence, cooperazione, internazionalizzazione.
Ora è il turno della Polonia di toccare con mano tutti i limiti dell’affrontare la questione come mero problema di sicurezza interna con tanto di esercito e fili spinati; prospettiva che finora ha offerto nella migliore delle ipotesi il riuscire a limitare il problema nel corto periodo, non certo di governarlo nel medio-lungo.
Senza dimenticare che si fa sentire il peso di un’opinione pubblica domestica che ha interiorizzato una sincera aspettativa minima di rispetto dei diritti umani che, se frustrata, genera insofferenza verso le proprie leadership democratiche, piuttosto che nei confronti di quelle bielorusse, che non si sforzano neppure di non apparire autoritarie.
Nel tentativo di dare un senso alla buona dose di improvvisazione ed eccesso di forza usato con i migranti al confine (in tutto sono 4.000 persone – meno di quante ne sono sbarcate in Italia nel solo mese di Ottobre 2021) Varsavia ha puntato il dito contro Aleksander Lukashenko, incolpandolo di essere l’ideatore e artefice della crisi.
Ne sembra capace un presidente che solo nell’ultimo anno si è guadagnato la ribalta per la ripetuta repressione dell’opposizione interna di cui il rocambolesco arresto del dissidente Roman Protasevich, è solo stato l’episodio più eclatante.
Inoltre, è difficile credere che in uno Stato di polizia come quello bielorusso – attento agli assembramenti non autorizzati perché possibile focolaio di proteste di piazza – migliaia di migranti con tratti etnico-somatici che li rendono facilmente distinguibili dalla popolazione autoctona, si spostino in marcia arrivando di sorpresa al confine con la Polonia.
Ovvero in un’area da sempre attentamente presidiata dai servizi di contro-spionaggio di entrambi i paesi.
Se queste premesse confermano i forti sospetti su Lukashenko, forti dubbi lascia l’altra accusa mossa da Varsavia contro Minsk, di avere aperto una guerra contro la Polonia, detta “ibrida” perché combattuta non con metodi e forze militari convenzionali ma utilizzando i migranti.
Ciò che non convince di questa ipotesi è – antipatia a parte (categoria che però poco influisce sul farsi della politica estera) – che non è chiaro a cosa avrebbe puntato Lukashenko nello sferrare un attacco unilaterale ai propri vicini.
Un’ipotesi credibile sul vero motivo che ha portato la Bielorussia a creare e drammatizzare la crisi la offre il rileggerla attraverso gli aiuti diretti (finanziari) o indiretti (tipo alleggerimento delle sanzioni) che Minsk spererebbe di ottenere dall’Occidente per gestire i migranti attivamente invece di applicare l’attuale sciopero bianco delle sue guardie di confine.
Più che puntare ad un ambizioso e poco chiaro attacco alla Polonia, in realtà l’obiettivo molto più pratico e raggiungibile sarebbe l’ottenere un sostegno da parte dell’Unione Europea, vera destinataria dell’attuale strategia negoziale di Minsk.
Tanto che Lukashenko nel colloquio telefonico tenuto con Angela Merkel (e non con il premier polacco Mateusz Morawiecki) si è detto disponibile ad allestire un campo di accoglienza per i migranti attuali. Ed è legittimo sospettare anche per quelli futuri.
Nel puntare ad ottenere aiuti dalla UE, Minsk si muove consapevole di due problemi di fondo.
Il primo, generale, è che gli aiuti internazionali in genere vengono dati alle condizioni dettate dei Donatori, con i Beneficiari a subirle.
Il secondo, particolare, è che come dimostra il caso Italiano essi hanno sempre faticato ad applicarsi al settore della migrazione, per il motivo che è difficile farli rientrare in uno schema di politica estera: i migranti illegali non vengono riconosciuti dal loro Stato di origine e quindi assisterli non crea con quest’ultimo un rapporto di obbligazione politica a vantaggio del Donatore.
Con la sua mossa, spregiudicata ma tutt’altro che irrazionale, Minsk punta ad imporsi come Beneficiario e invertire la dinamica politica della relazione con il Donatore per ottenere gli aiuti della UE alle proprie condizioni.
E’ un caso che ricorda i precedenti di altri Stati forti e fuori dal controllo occidentale che sono riusciti ad ottenere l’assistenza quando e come volevano, pur partendo dalla posizione svantaggiata di Beneficiario.
Come ad esempio la Turchia quando, nell’offrirsi di tenere i profughi siriani è riuscita non solo a ricevere da Bruxelles (il Donatore) gli aiuti finanziari diretti e senza mediatori cui puntava, ma anche a bloccare l’applicazione delle sanzioni per i propri casi di violazione dei diritti, normalmente introdotte dalla UE in altre situazioni analoghe.
Oppure il caso da manuale della Corea del Nord e della sua corsa agli armamenti usata come oggetto di scambio e pressione. Con Pyongyang ad effettuare e dare ampia visibilità mondiale ai suoi test militari, minacciando di sviluppare un proprio programma nucleare, proprio quando il paese ha più bisogno di ricevere aiuti e assistenza.
Anche qui, senza subire le interferenze del Donatore.