Le nuove proteste in Iran raccontano un paese in cui i cittadini sono stremati, con la crisi economica corrente che si somma a problemi strutturali e alla malagestione del potere. Un allargamento delle manifestazioni potrebbe mettere Raisi spalle al muro su una scelta fondamentale: rientrare nel Jcpoa
Nelle ultime settimane, molti cittadini iraniani sono scesi in piazza per protestare contro il taglio dei sussidi per i beni di prima necessità deciso dal governo, nonché contro il rialzo del tasso di cambio agevolato (di 42.000 rial per dollaro Usa) applicato alle importazioni di “beni vitali”, come medicinali, carne e grano.
Si tratta di una nuova ondata di dissenso popolare contro l’establishment politico della Repubblica islamica, che segue altre stagioni complesse. Il regime teocratico ha più volte in passato ordinato di reprimere con la forza le manifestazioni, secondo una volontà di minimizzare quanto sta accadendo ed evitare ulteriore diffusione ed emulazione.
Il presidente Ebrahim Raisi ha annunciato un nuovo programma di trasferimenti in denaro (basato su diverse fasce di reddito) per risarcire i cittadini iraniani dagli effetti della riforma dei sussidi — tagliati per circa il 40% delle erogazioni. Il governo cerca di calmare le proteste prima che esplodano con maggiore forza. L’Iran vive una situazione economica molto complicata, su cui le sanzioni statunitensi pesano perché impediscono molte forme di export — per primo quelle di prodotti energetici.
Le manifestazioni si sono diffuse in diverse città, ma il cuore delle proteste è stato ancora una volta la provincia sudoccidentale del Khuzestan. Là il crollo di un edificio ad Abadan a fine maggio ha ulteriormente irritato la popolazione, che vive già una condizione di isolamento. La regione è ricca di idrocarburi, ed è abitata da una minoranza araba, gli Ahwaz, che hanno sempre denunciato e combattuto forme di discriminazione da parte dei persiani. Inoltre lo scorso anno, a luglio, ci sono stati enormi problemi di siccità che hanno provocato una crisi idrica — di cui i cittadini del Khuzestan hanno accusato il governo, colpevole di mala gestione delle utenze pubbliche (in mano, come molte altre cose, ai Pasdaran).
Quest’ultima ondata di disordini è sintomatica della crescente frustrazione dell’opinione pubblica per i problemi dell’economia iraniana, alle prese con un’inflazione dilagante (salita al 40,2% dopo che nel 2017 era al 6,9) esacerbata dal costante indebolimento del Riyal e dal generale impoverimento (il Pil pro capite è di 2423 dollari, nel 2017 era 5520). Davanti a questa situazione diventata ormai strutturale, la soluzione più efficace sarebbe il ritorno del Paese nei dettami del Jcpoa: l’accordo per il congelamento del programma nucleare iraniano è naufragato da quando, nel 2018, l’amministrazione Trump ne ha tirato fuori gli Stati Uniti, ma poi l’Iran ha scelto di violare alcune dei parametri fissati aumentando quantità e percentuali di arricchimento.
Un rientro iraniano nella compliance rassicurerebbe gli Usa, che da mesi cercano di trovare un modo per ricomporre i pezzi incontrando le necessità della presidenza Raisi. Conservatore, eletto dopo due mandati del pragmatico/riformista Hassan Rouhani, Raisi non è ideologicamente orientato verso il dialogo con l’Occidente — il Jcpoa è siglato con Usa, Regno Unito, Ue (Francia e Germania), Cina e Russia. La crisi economica e il malcontento popolare sono però dei fattori non trascurabili per scelte pragmatiche. Il presidente è davanti a un dilemma: per far ripartire l’economia serve una nuova intesa, perché la politica di resilienza ha dei limiti, ma per lui è importante arrivare a una scelta giustificabile con il suo elettorato, critico delle posizioni di Rouhani.
Lo stesso che sette anni fa Ali Khamenei ha superato avallando il Jcpoa. Né la componente teocratica né quella politica del potere possono correre il rischio di sottovalutare le proteste, perché l’impatto psicologico di queste sulle collettività, sommato al contesto socio-economico, potrebbe essere un elemento che complica la tenuta del Paese — nonostante i vari livelli e tipi di forze di sicurezza siano una sorta di garanzia per il sistema della Repubblica islamica. Sono passati anni, all’interno dell’Iran le posizioni conservatrici hanno guadagnato consenso tra le varie collettività e il contesto si è complicato anche perché componenti dei Pasdaran hanno maggiorato le loro pressioni contro il Jcpoa.
Un accordo allevierebbe le sanzioni e riaprirebbe l’export. Non è un caso che dai dati esposti la situazione nel 2017 era molto migliore: in quel periodo il Jcpoa aveva iniziato a funzionare a regime. Come nota Matteo Bressan (Lumsa/NDCF) in un’analisi uscita sulla rivista Formiche, “con gli Stati Uniti che hanno interrotto le importazioni di petrolio russo e l’Unione europea che cerca di ridurre la propria dipendenza energetica da Mosca, il greggio iraniano torna a essere centrale. Un nuovo accordo vedrebbe il ritorno del petrolio iraniano sul mercato, in un momento in cui la carenza di approvvigionamento energetico e la volatilità del sistema internazionale hanno portato il costo del greggio a un livello senza precedenti”.
L’Iran sta perdendo 4-5 miliardi di dollari al mese di potenziali entrate petrolifere e l’accesso a 100 miliardi di dollari di fondi congelati per non aver finalizzato un accordo con gli Stati Uniti su un reciproco ritorno alla conformità sul Jcpoa. Questo denaro potrebbe chiaramente contribuire ad alleviare l’attuale situazione economica, rafforzando il rial e riducendo l’inflazione. Ma non è da escludere che davanti alle proteste il governo Raisi decida di arroccarsi: un’accettazione dei negoziati potrebbe sembrare una debolezza sia tra gli iraniani (costituency ed élite) che all’estero.
C’è però un fattore ulteriore. L’Iran è un Paese con diversi gruppi etnici minoritari all’interno che potrebbero cogliere l’occasione per solidarizzare con gli Ahwaz e avviare altre proteste — tra questi per esempio gli azeri, molto vicini alla Turchia con cui Teheran è in fase di tensione. Se questo allargamento delle manifestazioni si concretizzasse, potrebbe rapidamente aumentare il problema per il governo iraniano, rischiando di mettere Raisi spalle al muro. Tuttavia è ancora troppo presto per sapere come — e se — le proteste in corso influenzeranno la volontà dell’Iran di accettare un nuovo accordo nucleare con l’amministrazione Biden.
(Foto da www.president.ir)