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Se le proteste in Iran contagiassero Iraq e Libano?

La crisi iraniana potrebbe essere un grande esempio per altre collettività, come quella irachena e libanese, che soffrono condizioni simili. Dall’Iran si potrebbe scatenare un effetto regionale, che in molti temono

La Generazione Z che protesta in Iran è un simbolo di come una fascia demografica forte stia (di nuovo, a più di dieci anni di distanza dalle Primavere Arabe) spingendo un sentimento di rabbia e insoddisfazione nei confronti della propria leadership. È qualcosa che non riguarda soltanto l’Iran, ma anche altri angoli della regione, dove sia quella componente socio-demografica, culturale, sia quel risentimento verso le élite, è piuttosto vivace.

Pensare per esempio all’Iraq o al Libano, ed è per tale ragione che i Paesi del Golfo per ora non hanno interesse a soffiare sul fuoco delle proteste. Temono chiaramente l’avvio di un fronte di destabilizzazione ampio, che possa toccarle sia indirettamente che direttamente (i giovani sciiti in Bahrein sono in condizioni instabili, per esempio).

I manifestanti iraniani hanno dovuto affrontare una repressione sempre più dura da parte del governo, con repressioni violente che hanno portato all’uccisione di diversi manifestanti da parte delle forze di sicurezza (almeno 215 secondo i dati raccolti dalla ong Iran Human Rights, anche se altrove si parla di 400), restrizioni su internet e arresti di massa. Ma i giovani continuano a scendere in piazza e a trovare modi per protestare online.

Il vice comandante del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie iraniane ha dichiarato questo mese che l’età media della maggior parte delle persone arrestate durante le proteste (in totale oltre 20mila) è di 15 anni. Alcuni studenti arrestati durante le proteste sono stati portati in “istituti psicologici”, ha riferito il media riformista indipendente iraniano Shargh. La polizia non sembra in grado di gestire la situazione, e il regime sta già aumentando il coinvolgimento di Basij e Guardiani della rivoluzione.

“La barriera della paura è stata rotta”, ha commentato Merissa Khurma, direttrice del  Middle East Program del Wilson Center. Per le strade delle città iraniane, non solo le più grandi ma anche quelle provinciali (sarebbero 177 le città interessate), giovani iraniane di ogni età si tolgono il velo, simbolo delle proteste scattate per l’uccisione in una caserma della Faraja di Jîna Amini, conosciuta con il nome iranianizzato Mahsa — una ragazza curda arrestata, picchiata, probabilmente uccisa dalla polizia morale a settembre per non aver indossato correttamente il velo.

Per le strade iraniane si canta “morte al dittatore”, e ci si riferisce alla Guida Suprema Ali Khamenei, simbolo a sua volta del potere teocratico che l’establishment ha chiuso all’esterno, per primo al popolo — e anche con provvedimenti come l’inasprimento delle leggi islamiche individuali. La dimensione della reazione scatenata dalla vicenda Amini racconta di come e quanto il sentimento anti élite ribolla da tempo nel cuore degli iraniani, soprattutto dei più giovani, che vedono nel regime un freno esistenziale al loro futuro.

“Il governo ha sopportato grandi proteste in passato, in particolare nel 2009, nel 2017 e nel 2019, ma queste manifestazioni sono diverse. Incarnano la rabbia che le donne e i giovani iraniani provano nei confronti di un regime che cerca di soffocare i loro desideri più cari. E promettono di mettere in crisi l’establishment iraniano”, ha scritto Masih Alinejad su Foreign Affairs.

Questo genere di sentimento è condiviso dalle stesse classe sociale e demografiche in Iraq e Libano, dove parte dello scontento di massa è legato alle connessioni che alcuni gruppi di potere hanno con i tentacoli della teocrazia iraniana. Collegamenti basata sulla vicinanza ideologica, ruotanti attorno al mondo del Sepâh, il corpo militare teocratico che a Teheran è via via diventato predominante e determinante dall’inizio della rivoluzione khomeinista a oggi.

Quello che si è innescato è probabilmente un processo irreversibile, in Iran ormai si è superato il tabù della critica pubblica alla Guida — anche dell’insulto pubblico — e chi manifesta non ha più paura delle conseguenze. L’ex ministro dell’Intelligence iraniano, Mohseni-Ejei, negli ultimi due decenni è stato uno dei più spietati esecutori della dittatura islamista iraniana. “Ora sta esprimendo pentimento e dice servono riforme. Cominciano ad apparire delle crepe”, nota Karim Sadjadpour del Carnegie.

Qualcosa di simile alla crisi iraniana sta avvenendo altrove — solo che magari ancora bolle appena sotto la superficie, ma potrebbe comunque dilagare in qualsiasi momento. Non sarebbe corretto nemmeno parlare di espansione del fenomeno, perché è già espanso. Mentre si stanno muovendo dinamiche di distensione e stabilizzazione, nella regione mediorientale si assiste a hotspot con livelli di volatilità estremi.

Il Libano, dove le forze politiche (e paramilitari come Hezbollah) vicine all’Iran sono determinanti per i processi interni, la situazione socio-economica è disperata — e anche a questo si lega il recente accordo sui confini marittimi che gli Stati Uniti hanno voluto mediare con Israele per evitare ulteriori strappi e avviare un timido percorso di recupero.

In Iraq, le scelte sul primo ministro e presidente rappresentano la perpetrazione di uno status quo insostenibile. La stabilità politica dell’Iraq rimarrà una sfida e sarà maggiormente a rischio per le ripercussioni dei problemi in Iran. Oltretutto contro l’establishment nel caso iracheno — a differenza di quello iraniano — c’è un leader, il populista Motada al Sadr, che si è fatto portatore (discutibile) dei sentimenti popolari.

La questione delle proteste iraniane e dei suoi potenziali allungamenti si pone in mezzo ad altre situazioni critiche: il ruolo che Teheran sta svolgendo nel finanziare militarmente la Russia in Ucraina; il quasi definitivo naufragio del tentativo di ricomposizione dell’accordo sul nucleare Jcpoa; la crisi del mercato energetico e le tensioni tra Stati Uniti e Arabia Saudita; i processi di contatto inter e intra regionali che hanno riflesso anche su altri dossier (la Libia, la Turchia, l’Asia Centrale o il Corno d’Africa).



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