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Un mare di proteste e niente Jcpoa. Pronti per il nuovo Iran?

Gli Stati Uniti hanno spiegato chiaramente che sul dialogo con l’Iran (per il Jcpoa) non possono “perdere tempo”, perché non è potabile una forma di mediazione con Teheran in questo momento

L’inviato speciale degli Stati Uniti per l’Iran, Robert Malley, ha dichiarato ieri, lunedì 31 ottobre, che l’amministrazione Biden non ha intenzione di “perdere tempo” nel tentativo di rilanciare l’accordo nucleare iraniano in questo momento, considerando la repressione dei manifestanti da parte di Teheran, il sostegno iraniano alla guerra della Russia in Ucraina e le scelte fatte per portare avanti il suo programma nucleare.

Le parole di Malley sono importanti perché il funzionario statunitense non solo è uno dei massimi esperti al mondo nel dialogo con la Repubblica islamica — fu uno degli attori chiave dell’accordo Jcpoa del 2015 — ma è anche considerato un liberal molto aperto al negoziato con Teheran. Quando è stato nominato, all’inizio della presidenza di Joe Biden, la sua scelta rappresentava la netta volontà dell’attuale amministrazione di ricomporre l’intesa con l’Iran. Ma adesso questa volontà è distante dalla realtà.

“Non è nella nostra agenda. Non ci concentreremo su qualcosa che è inerte quando stanno accadendo altre cose […] e non sprecheremo il nostro tempo su di esso […] se l’Iran ha assunto la posizione che ha assunto”, ha detto Malley durante un evento del Carnegie Endowement. Sono le parole più vicine all’ammettere che il Jcpoa non verrà mai ricomposto mai dette da un funzionario statunitense, e seguono di pochi giorni quelle del portavoce del dipartimento di Stato, Ned Price, che aveva definito in negoziati “non una priorità”.

Non sono dunque uscite di frustrazione (ne avrebbe diritto dopo mesi in cui ha ottenuto quasi niente) o un’esposizione azzardata, ma delineano la posizione che Washington ha assunto. Per ora non viene segnato ufficialmente lo strappo, per evitare che una rottura si sfoghi su altri dossier, ma il fatto che Malley accenni alla possibilità che il presidente Biden sia pronto a ricorrere a mezzi militari come ultima risorsa per impedire all’Iran di dotarsi di un’arma nucleare, è significativo.

L’appoggio alla Russia nella guerra in Ucraina e la reazione violenta del regime contro le proteste popolari hanno cambiato le carte in tavola. Tra l’altro, sarebbe in preparazione l’invio di circa 1.000 armi aggiuntive, tra cui missili balistici a corto raggio terra-superficie e altri droni d’attacco, da utilizzare nella sua guerra contro l’Ucraina, secondo quanto dichiarato alla CNN da funzionari di “un Paese occidentale che monitora da vicino il programma di armamenti iraniano”. La spedizione viene controllata con attenzione perché sarebbe il primo caso di invio da parte dell’Iran di missili guidati di precisione avanzati alla Russia, che potrebbero dare al Cremlino un notevole impulso sul campo di battaglia.

L’Iran si è chiuso al dialogo con gli Stati Uniti, ha scelto di isolarsi dal negoziato con l’Occidente, preferendo poi di posizionarsi su un lato inaccettabile del fronte: assiste la Russia e reprime i civili che manifestano. Impossibile per un’amministrazione come quella statunitense giustificare forme di mediazione con Teheran in questo momento.

Sarebbe difficile giustificarle con gli alleati (sia con gli europei che soprattutto con i mediorientali); con l’elettorato democratico (dove la narrazione sulle democrazie contro autoritarismi è uno dei grandi temi); con i Repubblicani (che competono tra pochi giorni per le MidTerm e intendono usare tutto per dimostrarsi più incisivi dei Democratici e intralciarne il lavoro su ogni fascicolo). Se l’aiuto a Mosca — attraverso la fornitura di droni, e forse missili, che stanno aiutando la tattica russa di attacco alle infrastrutture civili con cui sfiancare la popolazione ucraina — è un fattore di scontro di campo, la questione delle proteste rende un eventuale dialogo particolarmente imbarazzante.

E se inizialmente sono state minimizzate di proposito dalle cancellerie europee e dagli Usa anche per cercare di poter tenerle separate da eventuali contatti sul Jcpoa, a questo punto non è più possibile. A oltre un mese dall’inizio, con una diffusione totale in tutto il Paese (unica per dimensione nella storia delle proteste contro la Repubblica islamica), e con decine di morti prodotti dalle forze di repressione del regime, i moti in Iran hanno bisogno di essere ascoltati e non marginalizzati per obiettivi di realpolitik.

Resta che un’eventuale rottura dei rapporti con Teheran per la ricomposizione del Jcpoa potrebbero portarlo a spingere il proprio programma nucleare e a usare altre attività aggressive a livello regionale. Ma per gli Stati Uniti sta diventando impossibile ignorare la voce di chi protesta. E far pesare la situazione sui negoziati in corso è il più forte dei metodi, anche perché diventa una conferma della permanenza del piano sanzionatorio, ne preclude altre articolazioni, apre alla possibilità che altri (Unione Europea e Regno Unito) si pongano su una linea altrettanto severa.

Intanto i manifestanti hanno chiaramente ignorato l’ultimatum che Hossein Salami, il capo del Sepâh, il Corpo dei Guardiani della Rivoluzione, aveva imposto loro. Salami è uno dei nemici ideali dei manifestanti: guida della forza militare teocratica che si muove in Iran come uno stato-nello-stato, e mente e braccio delle chiusure del regime, delle sue violenze e delle sue sperequazioni. “Questo è l’ultimo giorno”, aveva detto sabato 29 ottobre, alludendo a un aumento della stretta autoritaria. Come se non bastasse già.

Il regime presieduto da Ebrahim Raisi sotto la Guida Suprema di Ali Khamenei non ha mai aperto a possibilità di dialogo con chi protesta. Le manifestazioni sono sfogate dopo la vicenda dell’uccisione di Jîna Mahsa Amini — la ragazza uccisa in una caserma della polizia morale dove era stata portata perché non indossava correttamente il velo — e sono esplose come moti di protesta per la situazione economica, sociale e soprattutto contro le strette sui diritti. Si sono diffuse in tutto il Paese, con le squadracce dei miliziani Basij che (sotto ordine dei Pasdaran) sparano tra la folla. Una reazione che al momento rende un qualsiasi negoziato con Teheran semplicemente non potabile.



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