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Veneziani legge i primi 10 anni di FdI. Non solo gli scontenti hanno votato Meloni

Lo scrittore e intellettuale: “Più di mezza società non è contenta del quadro di potere in cui si trova a vivere e quindi chiede di cambiare: la chiave del cambiamento è sempre la scontentezza. Fratelli d’Italia ha però preso anche il buono dell’esperienza governativa di An”

Non c’è solo il bacino degli scontenti ad aver foraggiato il successo elettorale di Fratelli d’Italia, ma anche l’esperienza di Alleanza Nazionale in cui grosso modo un 15-20% di italiani aveva mostrato sempre un’inclinazione verso destra. Lo dice a Formiche.net Marcello Veneziani, intellettuale e scrittore che ha appena pubblicato per Marsilio “Scontenti. Perché non ci piace il mondo in cui viviamo”, che legge in filigrana il passaggio ideale dall’exploit di An a quello di FdI, nel decimo anniversario del partito meloniano, che si terrà nel prossimo fine settimana a Roma.

Perché non ci piace il mondo in cui viviamo?

Credo che la scontentezza sia veramente il male oscuro della nostra epoca: cerchiamo in maggioranza contemporaneità, siamo scontenti appunto di come viviamo la nostra vita, di come siamo considerati dagli altri scontenti del mondo e dalla circostanza esterna. Credo che anche molti fenomeni, compresi quelli politici come il successo dei movimenti populisti e delle opposizioni di chi non stava al Governo, nasca proprio dal fatto che la scontentezza è il primo motore che muove in qualche modo l’indignazione e che porta al cambiamento. Quindi credo che ragionare della scontentezza significa ragionare anche per capire molti degli atteggiamenti critici che noi abbiamo nella vita contemporanea, penso agli haters, a chi esercita l’odio online, a chi vota contro i comportamenti in qualche modo scorretti. Il presupposto di tutto questo è un’intima scontentezza, cioè uno sfogo a questo sentimento che abbiamo e che diventa risentimento quando assume una valenza aggressiva pubblica.

Alcuni critici osservano che chi vince le elezioni spesso pesca nel bacino degli scontenti: è così anche oggi?

Certo, credo che sia la principale chiave di lettura dei fenomeni politici degli ultimi anni, cioè se c’è un cambiamento netto a livello politico, allora il cambiamento ha quella valenza: ovvero il partito degli scontenti che decide di votare ora il Movimento Cinque Stelle, ora la Lega, ora appunto la destra. Il tasso di contrasto nei confronti del potere acquisito è ormai un dato abbastanza permanente nelle nostre società: più di mezza società non è contenta del quadro di potere in cui si trova a vivere e quindi chiede di cambiare. La chiave del cambiamento è sempre la scontentezza.

Fratelli d’Italia dieci anni dopo cosa è stata rispetto ad altre esperienze politiche?

Fratelli d’Italia aveva alle spalle un’esperienza, che era quella di Alleanza Nazionale e che era quella dei governi di centrodestra in cui grosso modo un 15-20% di italiani aveva mostrato sempre un’inclinazione verso destra. Solo che non era riuscito a intercettarli perché era ancora una realtà troppo piccola: non era ancora avvertito, in tutta la forza, il messaggio della Meloni e quindi il potenziale già c’era in partenza ma alla fine in più si è riuscito a giocare sullo scontento nei confronti della Lega, sulle delusioni del populismo. In questo modo altri serbatoi sono andati a ingrossare quell’area che comunque già esisteva ripeto e che era ben più consistente di quel 4% che aveva Fratelli d’Italia.

La carta meloniana del ritorno al partito novecentesco è stata vincente, con attenzione ai territori e con ruoli non liquidi, un po’ in antitesi al partito leggero di Forza Italia?

Sì, ma credo che non sia stata nemmeno una scelta strategica quanto una necessità, perché in mancanza di una leva di potere non c’è altra forza se non il territorio, le sezioni. Qui il passaggio non è soltanto con Alleanza Nazionale ma anche col vecchio Movimento sociale insomma. Quindi diciamo che la scelta del partito è stata in qualche modo obbligata, anche se poi andando a vedere la partecipazione attiva dei partiti degli anni ’70 è oggi introvabile in tutti i campi, inevitabilmente come effetto di una di una società molto diversa.

Quanto conta l’elemento generazionale? Molti dirigenti di FdI sono della stagione di Atreju, quindi posti nella fase già centrale di An e non in quella precedente.

Loro avevano una specie di universo immaginario che non veniva dalla storia del Movimento sociale e che aveva ormai tratti molto lontani rispetto alle esperienze del neofascismo: il loro orizzonte era il Signore degli Anelli a voler cercare, come dire, dei miti fondanti. A questo si aggiungeva naturalmente una posizione critica, di opposizione, di critica nei confronti della società, del consumismo e così via. Però erano tematiche, diciamo che in qualche modo segnavano un cambiamento rispetto a quelle del vecchio repertorio della destra italiana, della destra nazionale e sociale italiana. Permaneva però proprio quel tratto, il riferimento a una destra sociale più che liberale e a una destra nazionale più che europeista. Insomma ecco questi sono i due tratti che sono stati i tratti di continuità con le altre destre precedenti e che hanno consentito di avere una specie di identità originaria, che è diventata il nucleo di partenza del patrimonio originario di Fratelli d’Italia.

Quanto ha influito una certa visione tatarelliana nel percorso di FdI?

Pinuccio Tatarella, essendo stato l’unico che ha pensato un po’ strategicamente il ruolo della destra, è inevitabile che diventi un punto di riferimento, ma devo dire che originariamente ha funzionato fino a un certo punto quel tipo di strategia. Vero è che tra i soci fondatori di Fratelli d’Italia c’è Ignazio La Russa, che proviene proprio dall’esperienza tatarelliana, quindi c’è un filo di continuità con la sua esperienza. Però nel corso di questi anni Fratelli d’Italia ha cavalcato più elementi di discontinuità con il quadro politico circostante, che elementi di apertura a una strategia di centrodestra tipo quella di Tatarella. Ovvero il voler andare oltre il Polo cercando di allargare in qualche modo il consenso, perché il problema naturalmente era quello di una forza minoritaria che non poteva pensare di andare oltre il Polo stesso. Ecco, per andare oltre aveva inevitabilmente un tratto anti-sistema che è stato poi l’elemento che ha portato al successo inizialmente e che ha consentito oggi alla Meloni di diventare la leader del partito degli scontenti ormai.

Non solo politica, ma cultura: questa destra si può candidare a farla? E in che modo?

Ho suggerito un percorso, anche se devo dire con molto disincanto perché conosco una certa freddezza nei confronti delle strategie che riguardano la cultura da parte del ceto politico di destra, quello di ieri ma anche quello di oggi. Per cui, senza grandi illusioni, innanzitutto penserei a non contrapporre a una visione settaria un’occupazione simmetrica del potere, sia perché non hanno proprio i mezzi per farlo, sia perché il problema è andare oltre e partire dal riconoscimento dell’eccellenza dei meriti per le qualità. Quindi il primo passaggio che io suggerisco è quello di puntare sui migliori e non semplicemente sui tuoi o su chi rappresenta il tuo mondo. In secondo luogo proporrei di allargare un po’ gli orizzonti anche ad ambiti non strettamente legati a una lettura politica e ideologica, quindi aperti a una visione più generale della società. Non bisogna scegliere sempre la cultura che esprime per forza e veicola quei valori. Bisogna accettare, come dire, un orizzonte più ampio, dove ci sono più cose in cielo e in terra della destra e della sinistra.

@FDepalo

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