Il contrasto dell’inflazione è affidato all’azione delle banche centrali, Fed e Bce in particolare. La domanda da porsi è se la loro azione sia sufficiente per contrastarla senza creare conseguenze recessive significative. I paralleli con gli anni ’70 secondo Luigi Paganetto, Gruppo dei 20
Gli articoli di Alessandro Minuto Rizzo, Gloria Bartoli, Adriano Giannola, Emilio Rossi all’interno di una rubrica del Gruppo dei 20 per un programma di legislatura su Equità e Sviluppo. Qui la presentazione del volume curato da Luigi Paganetto
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Olivier Blanchard nell’esaminare l’azione della Federal Reserve ha osservato che essa “influendo sul rallentamento dell’economia attraverso i tassi di interesse è in grado di ottenere che le imprese accettino a salari dati, più bassi prezzi e che i lavoratori accettino più bassi salari a dati prezzi”. Ma gli aumenti dei tassi d’interesse sono uno strumento inefficiente per regolare il conflitto, che può essere meglio regolato attraverso la contrattazione tra imprese e lavoratori che può produrre un risultato “senza pagare il prezzo di un pesante rallentamento dell’economia”.
Che l’inflazione ponga in essere un conflitto distributivo è fuori discussione. La questione è come risolverlo perché sono divergenti gli interessi tra creditori e debitori, tra chi ha un reddito fisso e chi può scaricare su altri l’aumento dei prezzi. Una delle lezioni che emergono dalla crisi del 1972-73 è la vicenda della spirale salari-prezzi che si innestò nel nostro Paese quando ci fu il tentativo di fronteggiare il conflitto distributivo. Nessuno vuol certo ripeterlo oggi.
È peraltro vero che l’azione delle banche centrali risulta oggi assai più moderata di quella delle due crisi ‘72 e ‘78 in seguito alle quali, nel 1981, i tassi di interesse raggiunsero addirittura il 19%. E anche nel caso dell’energia che tanti problemi determina oggi, i prezzi del petrolio non hanno raggiunto quelli dell’80 e per il gas si sta tornando ai livelli precedenti la crisi.
Naturalmente occorre distinguere tra l’inflazione europea e quella Usa. La prima è stata considerata per quasi un anno come un fenomeno temporaneo dalla Bce che, per questo, è intervenuta con ritardo. Successivamente ne è stato riconosciuto il carattere strutturale legato alla crisi energetica e ai colli di bottiglia sulle materie prime nelle catene del valore. Essa ha peraltro in comune con l’inflazione Usa l’eccesso di liquidità generato dalle politiche seguite alla crisi pandemica. è forse per questo che l’azione della Fed è risultata più efficace nell’attenuarla.
Ma è anche vero che l’inversione di tendenza dell’inflazione è dovuta in parte al venir meno dei colli di bottiglia sull’offerta a cominciare dai mancati investimenti passati sull’energia insieme alla crisi delle forniture dalla Russia.
Se è importante stabilire quanto l’azione delle banche centrali riuscirà a contenere l’inflazione e se la recessione attesa per il 2023 sarà di più lieve o maggiore entità, altrettanto, e forse di più, è stabilire se la loro azione sia sufficiente a garantirci il ritorno ad un’era di disinflazione e crescita cui tutti guardano, come il naturale esito del contrasto all’inflazione.
Non c’è dubbio, anche a questo riguardo, che l’esperienza degli anni ‘70 ha dato molti insegnamenti. È solo dopo di allora che le Banche centrali hanno concentrato la loro azione sull’obbiettivo primario del tasso d’inflazione abbandonando gli altri obbiettivi, a cominciare dalla crescita. Ne è seguito un forte aumento del successo della loro azione e della loro credibilità, è vero. Ma non è detto che sia sufficiente se non altro in Europa per un ritorno ad un’era di disinflazione e crescita, come è sembrato possibile dopo la ripresa del 2021.
Per convincersene basta pensare non solo agli aspetti di offerta dell’inflazione in atto, ma anche alle conseguenze che il passaggio da un lungo ciclo di tassi zero o addirittura negativi ad uno a tassi positivi potrà avere sugli investimenti e sulla crescita. Ha certamente ragione Mervyn King quando osserva che il ritorno a tassi d’interesse positivi tende a determinare una maggiore selezione e produttività degli investimenti, ma è anche vero che ciò avverrà in una fase in cui molte saranno le zombie firms e quelle in difficoltà.
È per questo che serve un’azione di politica fiscale delle autorità europee che definisca un piano d’intervento come già accadde nel 2014 con il piano Juncker di sostegno degli investimenti. Il Pnrr rappresenta una straordinaria opportunità per il nostro Paese che ha più di altri necessità di tornare su un sentiero di crescita e nel farlo deve badare agli equilibri di bilancio e ai rischi dell’indebitamento.
Tanto più se si tiene conto dell’aumento dell’indebitamento globale che può determinare seri squilibri finanziari e che pone già oggi seri problemi ai paesi emergenti, minacciandone il contributo allo sviluppo del commercio internazionale. Emblematico a riguardo il caso del Ghana, paese tra i maggiori e più responsabili dell’Africa, che ha sospeso in dicembre i pagamenti degli interessi sulla maggior parte del suo debito estero.
A tutto questo deve porre attenzione la politica economica nazionale ed europea, anche perché si scorgono all’orizzonte i prodromi di potenziali conflitti commerciali che possono accompagnarsi all’avvio di politiche industriali (è il caso dei microchjp) negli Usa ed Eu in cui agli aspetti competitivi si associano tendenze protezionistiche.
In conclusione, se una lezione si deve trarre dalla crisi degli anni ‘70 è il lungo periodo di instabilità che ne seguì e che si potrebbe ripetere.
Anche se ci sono buone ragioni per ritenere che al momento siamo di fronte ad una situazione differente per molti aspetti da quella di allora, le condizioni complessive dell’economia, a cominciare dalla frammentazione degli scambi globali e dai cambiamenti del quadro finanziario globale, ci devono indurre a tener conto di un mondo in cui l’incertezza continuerà ad essere preponderante. E a pensare che per riprendere il cammino della stabilità e dello sviluppo non basta l’azione delle banche centrali ma serve un’azione di policy, condotta sia a livello nazionale che europeo, che eviti le tentazioni protezionisiche e realizzi una politica industriale a favore di investimenti e innovazione.