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DeSantis contro Disney, si accende la battaglia tra repubblicani e politicamente corretto

Approvata la legge che darà al  governatore della Florida il potere di scegliere i consiglieri del distretto di Disney World ed elimina lo statuto speciale che finora era stato garantito al più grande parco divertimenti al mondo. Dietro, la battaglia sull’insegnamento dell’identità di genere nei primi anni delle elementari, e la conquista dell’elettorato conservatore che cerca un nuovo difensore dopo aver votato in massa per Trump

 

Mentre in Italia i temi woke che hanno dominato il Festival di Sanremo stanno alimentando lo scontro politico, negli Stati Uniti Ron DeSantis prosegue la sua battaglia per ridimensionare il potere di Disney nello Stato da lui governato, la Florida. Il repubblicano è uno dei front-runner (pur non avendo ancora annunciato la sua candidatura) per la nomination del suo partito nel 2024, e ha trionfato alle elezioni di novembre, vincendo anche in distretti in genere conquistati dai democratici.

L’assemblea legislativa della Florida ha deciso lo scioglimento del distretto speciale garantito al gigante dei media, che da quasi mezzo secolo godeva di uno statuto di autonomia nella gestione di Disney World, il più grande complesso di parchi a tema del mondo: 58 milioni di visitatori annui, oltre 110 chilometri quadrati che comprendono Magic Kingdom, Epcot, i Disney’s Hollywood Studios e il Disney’s Animal Kingdom. Oltre a due parchi acquatici, sei campi da golf, più di 27 hotel a tema, e diverse aree commerciali.

Il nuovo statuto garantisce al governatore la nomina del consiglio di sorveglianza, che controlla lo sviluppo dei parchi e dell’area commerciale. Finora, grazie al cosiddetto distretto speciale Reedy Creek, istituito nel 1967, la Disney ha potuto gestire terreni e servizi pubblici in totale autonomia. Questa indipendenza era stata garantita per creare una città futurista che non è mai stata realizzata, e che si limitò alla costruzione dell’Epcot Center, aperto nel 1982. Con la fine dell’autonomia, il distretto si chiamerà Central Florida Tourism Oversight District.

DeSantis potrà nominare i cinque supervisori del distretto di Mejora di Reedy Creek, l’area di più di 10.000 ettari di Disney World. I membri della giunta saranno confermati dal Senato dello Stato, anche se non avranno potere di intervento nella gestione quotidiana o nei contenuti offerti dai parchi, e anche in termini di sviluppo non ci sono molti margini di ulteriore espansione.

Il braccio di ferro tra DeSantis e la Disney viene da lontano: Bob Chapek, che è stato ceo della Walt Disney Company fino a poche settimane fa, aveva criticato la normativa dello Stato che vieta ai maestri fino alla terza elementare di trattare a scuola la questione dell’orientamento sessuale o dell’identità di genere, la cosiddetta legge Don’t say gay, introdotta proprio da DeSantis. Annunciando nel frattempo la fine delle donazioni politiche in Florida. Nel frattempo, per motivi di risultati aziendali ma anche per aver alimentato questo scontro, Bob Chapek è stato sostituito dal suo predecessore, Bob Iger, che ha un atteggiamento decisamente più conciliante con la politica locale e nazionale.

Bryan Griffin, portavoce del governatore, ha scritto su Twitter che “Reedy Creek ha garantito straordinari privilegi speciali a una sola azienda. Fino a quando il governatore Ron DeSantis ha deciso di agire, Disney aveva mantenuto il controllo esclusivo. Come avere un Regno privato societario che non doveva rispondere a nessuno. Che ora è finito, e inizia una nuova era di responsabilità e trasparenza”. DeSantis ha aggiunto: “C’è un nuovo sceriffo in città”. L’obiettivo è chiaro: conquistare la fetta di elettorato conservatore, che finora si era sentita tutelata da Trump, che diffida della “dittatura del politicamente corretto” promossa da grandi corporation e istituzioni scolastiche e universitarie. Questa strategia nel 2021 ha garantito la vittoria nella corsa per governatore della Virginia a Glenn Youngkin, altro nome che alcuni fanno per le primarie repubblicane. La identity politics, che finora ha beneficiato soprattutto i democratici, potrebbe essere la nuova arma dei repubblicani.



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