Netanyahu gioca con la Cina. Foto con il libro di Xi anticipando un probabile viaggio a Pechino (prima o dopo della visita alla Casa Bianca?)
Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, insiste che a settembre andrà alla Casa Bianca, ma non solo Joe Biden non ha mai fornito una data per l’invito a Washington “entro l’anno”, ma le recenti vicende potrebbero aver ulteriormente raffreddato i rapporti. Non c’è solo la mossa sulla riforma della giustizia. A pochi giorni dal voto parlamentare che ha creato caos in Israele e che Washington aveva apertamente chiesto di evitare, Netanyahu si è fatto fotografare con l’ambasciatore cinese Cai Run mentre teneva in mano “Governare la Cina”, il libro manifesto del leader cinese Xi Jinping.
Il combinato disposto non è stato apprezzato a Washington. Non perché gli americani non sapessero della testardaggine di Bibi (e delle sue necessità riguardo alla riforma della giustizia o delle azioni aggressive sui territori occupati palestinesi). Ma perché quella foto e quel sorriso beffardo sono sembrati a mezzo mondo una provocazione contro gli Stati Uniti — che vedono la Cina come potenza rivale. Sarebbe interessante sapere se ciò avrà avuto effetti sul mood dei colloqui che in questi giorni funzionari senior dell’amministrazione Biden terranno con le controparti saudite — e con l’erede al trono Mohammed bin Salman. Tema degli incontri: un possibile accordo di sicurezza Washington-Riad che si porti dietro la normalizzazione con Israele e che, secondo l’ipotesi suggestiva argomentata da Thomas Friedman (super-columnist del New York Times) coinvolgerebbe anche la Palestina.
Netanyahu sta cercando la sponda statunitense per normalizzare le relazioni con Riad. Gli americani tanto quando i sauditi sono assolutamente d’accordo in linea generale, ma le questioni legate alla Palestina e le mosse radicali del governo israeliano stanno un po’ rallentando il processo. Si scrive “rallentando” perché una normalizzazione tra Riad e Gerusalemme rientra nei desiderata strategici di tutti e tre gli attori ed è il flusso degli eventi a renderla pressoché certa in futuro. Tuttavia gli eventi possono cambiare e quel futuro potrebbe allontanarsi anche per via della Cina — oppure avvicinarsi.
Pechino ha già fatto da mediatore finale nel lungo e complicato processo di distensione tra Iran e Arabia Saudita: potrebbe fare altrettanto anche con Israele? Il rapporto con la Cina è parte del dialogo tra americani, sauditi e israeliani. Washington tiene sotto stretta osservazione le relazioni con il rivale sistemico globale, in particolare se toccano materie delicate (tecnologie, difesa, investimenti infrastrutturali), e soprattutto se coinvolgono alleati chiave come Israele e Arabia Saudita.
La ragione di queste attenzioni le ha recentemente spiegate il professore della Fudan University Sun Degang, direttore del Center for Middle East Studies di una delle più prestigiose università cinesi. “In mezzo a grandi cambiamenti mai visti in un secolo, i paesi del Medio Oriente ‘guardano a est’, mentre i paesi asiatici ‘si dirigono a ovest’. Entrambe le parti stanno sviluppando rapporti di cooperazione sempre più stretti e pragmatici”. Questo incrocio è particolarmente preoccupante per Washington perché teme di perdere contatto con una regione dalla quale vorrebbe in teoria ridurre il coinvolgimento, ma pretenderebbe di avere un totale controllo da remoto.
Mentre possono sufficientemente fidarsi degli attori amici — come il giapponese Fumio Kishida (recentemente in tour nel Golfo) o i vietnamiti (che da poco hanno firmato un accordo di libero scambio con Israele che per gli Usa va sotto l’etichetta friendshoring) — gli americani temono che le collaborazioni che i Paesi mediorientali mettono in piedi con la Cina non solo sostituiscano quelle statunitensi, ma che in qualche modo vengano messe a repentaglio le basi della loro presenza nella regione: per esempio, pensano che la diffusione di sistemi 5G (o 6G) cinesi possa permettere alle intelligence di Pechino di acquisire informazioni a detrimento degli interessi americani.
Per esempio, le preoccupazioni degli Stati Uniti sulla possibilità che tecnologie americane-israeliane raggiungano la Cina, per il potenziale controllo cinese delle infrastrutture vitali di Israele e per l’acquisizione di aziende innovative israeliane da parte di imprese controllate dalla Cina, sono state rese note a Israele in modo bipartisan, non solo nelle visite dei funzionari delle ultime due amministrazioni (caratterizzati da colori politici diversi e approccio diversi con Israele). Anche nel discorso del presidente repubblicano della Camera dei Rappresentanti, Kevin McCarthy, il primo maggio scorso, c’è stato un riferimento a queste preoccupazioni. McCarthy ha esortato Israele a rafforzare la sua supervisione sugli investimenti stranieri.
In un recente saggio per il Jerusalem Strategic Tribune, pubblicazione boutique che si occupa di affari mediorientali con occhio israelo-centrico, il direttore Eran Lerman ha delineato l’agenda cinese di Netanyahu. Cosa porta il primo ministro israeliano a “liberarsi dalla morsa di una politica interna corrosiva e di rivendicare ancora una volta un posto sulla scena globale?” si chiede Lerman, ex direttore per gli affari internazionali al Consiglio di sicurezza nazionale israeliano.
Punto primo, “chiarire la percezione della minaccia di Israele se l’Iran continuerà a progredire verso una capacità nucleare militare”, poi “riaffermare il reciproco interesse per la stabilità regionale, compreso il sostegno alla sopravvivenza economica di attori chiave come l’Egitto”, e poi “discutere di cooperazione tecnologica, dalla medicina all’agricoltura”. Questi sono gli obiettivi che porteranno Netanyahu a Pechino nei prossimi mesi, ma secondo Lerman, al di là delle foto e dei messaggi velenosi, si muoverà in misura molto più limitata e accorta rispetto alle visite a Pechino del 2013 e del 2017, “quando Israele sperava ancora di attirare grandi investimenti cinesi in infrastrutture e alta tecnologia, il cui entusiasmo si è poi spento da entrambe le parti”.