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Le domande a cui l’Italia deve rispondere sulla Cina. L’opinione di Harth

Quale segnale si vuole mandare agli imprenditori e aziende italiane con interessi economici in Cina? E agli elettori? Più che l’uscita della Via della Seta, saranno le risposte a queste domande a dirci quanto l’Italia è veramente pronta a voltare pagina

Non è un segreto che l’uscita anticipata dell’Italia dal memorandum d’intesa sulla Via della Seta susciti interesse. Forse persino più all’estero che nel dibattito pubblico italiano.

Fa specie dover in parte concordare con la propaganda del regime cinese sull’hype che si è creato o delle sue voci autoctone in Italia come l’ex sottosegretario allo Sviluppo economico Michele Geraci. In un post su Twitter si è vantato del suo lavoro incessante di spiegare al pubblico cinese come non occorrerebbe prendere troppo sul serio le dichiarazioni di Guido Crosetto, ministro della Difesa, circa l’“errore” della sottoscrizione dell’accordo nel 2019. Geraci arriva a pregare il ministro in carica di apprezzare i suoi sforzi “per l’interesse dell’Italia”.

Oltre la propaganda, si nota una certa tendenza anche nei media internazionali di dare l’uscita per scontata. È vero che Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, e la stragrande parte della sua attuale maggioranza non hanno mai nascosto la loro contrarietà per quella firma.

Non c’è ragione di dubitare l’assoluta sincerità delle parole del ministro né della volontà del governo di uscire. La domanda che però continua a passare inosservata nella maggior parte dei commenti è quella sul come. Ed è propria la domanda che dovrebbe essere all’attenzione di tutti.

In primis, perché Meloni lo ha accennato in tutte le interviste in tema durante e dopo il suo viaggio negli Stati Uniti. Un accenno subito seguito da un commento sull’importanza per l’Italia del continuo scambio commerciale con la Repubblica popolare cinese. Una sottolineatura che da mesi si sente un po’ dappertutto nel mondo politico italiano.

Si potrebbe dire che è una sottolineatura logica per un Paese che cerca di “evitare di dare alla questione un imprinting eccessivamente politico”, come scrivono Gabriele Carrer e Emanuele Rossi su Formiche.net e che dovrebbe quindi placare sia il regime comunista cinese sia le anime italiane con interessi commerciali in Cina, che saranno indubbiamente ben consci del frequente utilizzo cinese della leva economica come strumento di guerra politica. Difficile non politicizzare gli scambi di qualsiasi natura con un regime che politicizza tutto. Un elemento di cui la presidente del Consiglio è chiaramente consapevole. Per quanto diplomatiche, le sue parole circa i limiti e i pericoli che si sono creati nelle global supply chain e l’economia mondiale a causa delle storture causate dai regimi non-democratici non saranno state indirizzate esclusivamente al più grande pericolo dittatoriale dei nostri tempi, ma certamente non lo escludono.

Partendo da questi elementi, torniamo al come. È possibile immaginare una uscita dalla cosiddetta Via della Seta senza alcun danno ai rapporti con Pechino? Quale credibilità dare alle voci che suggeriscono la possibilità di un accordo alternativo che dovrebbe – se si dovesse ancora credere alle promesse di Pechino – questa volta sì portare anche l’Italia ad avere un interscambio commerciale più equo con la Cina? Un accordo commerciale (?) più concreto quindi da quel memorandum di principale portata politica, ma che ci legherebbe sempre a quel regime che ha come dichiarata politica quella di voler insulare il suo mercato domestico da eventi esterni (leggasi, le sanzioni nel caso di una mossa unilaterale di Pechino su Taiwan), e al contempo quello di voler aumentare la dipendenza strategica altrui sul suo mercato e le sue catene di approvvigionamento. Proprio quel pericolo di cui ha parlato Meloni.

Se è vero quanto scrivono Carrer e Rossi, che “in Parlamento starebbe emergendo l’idea di muovere il dibattito parlamentare, auspicato anche da Meloni, dalla Commissione Attività produttive”, forse quelle voci non hanno tutti i torti. Possibile che Geraci abbia captato il sentimento che si privilegerà un dibattito di natura strettamente commerciale con la Cina, sorpassando le questioni di sicurezza nazionale, quando scrive che il ministro della Difesa non sarebbe autorità competente a parlare della questione Via della Seta?

Quale segnale si vuole mandare agli stessi imprenditori e aziende italiane con interessi economici in Cina che già oggi sentono il fiato del regime sul collo? Quale messaggio si intende mandare al pubblico italiano dopo le minacce di ritorsione contro l’Italia? Abbiamo davvero imparato le lezioni dai dolori economici provocati dall’invasione illegale dall’Ucraina da parte di quell’altro regime “partner strategico senza limiti” di Pechino?

Più che l’uscita della Via della Seta, saranno le risposte a queste domande a dirci quanto l’Italia è veramente pronta a voltare pagina.

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