Al simposio organizzato dalla Federal Reserve nel Wyoming con ogni probabilità si parlerà della possibile escalation nel Dragone, dopo il collasso di Evergrande. Il contagio, per ora, è circoscritto ma il passo per un avvitamento della crisi è breve, nonostante gli sforzi di Pechino per riguadagnare la fiducia del mercato
I banchieri centrali che si stanno per riunire a Jackson Hole, nel Wyoming, per il tradizionale simposio organizzato dalla Federal Reserve (versione americana del forum di Sintra, promosso dalla Bce), non potranno sottrarsi a una attenta riflessione di quello che sta succedendo in Cina. Il collasso di Evergrande, che pochi giorni fa ha presentato a New York un’istanza di ristrutturazione ma che ha tutto il sapore di un concordato coi creditori, è il simbolo inequivocabile dei nuovi mali del Dragone.
Il quale, ora più che mai, teme per il suo futuro. Come birilli sono pronti a cadere altri giganti del mattone, tra tutti Country Garden, ma anche Soho. Un effetto domino già materializzatosi sul versante obbligazionario, vista la conclamata emorragia di capitali che in sei mesi ha visto evaporare 7,6 miliardi di dollari di bond governativi e corporate. Insomma, la crisi finanziaria ora rischia di lasciare spazio a una crisi ben peggiore, quella della fiducia.
Per questo Jerome Powell, padrone di casa a Jackson Hole, oltre che a parlare di tassi e nuove, possibili, strette monetarie (e qui sono le banche americane a doversi tenere pronte a qualche turbolenza), dovrà affrontare necessariamente la questione cinese, insieme alla sua omonima europea, Christine Lagarde. D’altronde, è un dato di fatto ormai: l’economia del Dragone non solo sta rallentando, ma è piegata da emergenze che rischiano di travolgere il mondo intero, andando a complicare il lavoro delle banche centrali, già in prima fila per cercare di spegnere la corsa dei prezzi.
Toccherà proprio al presidente della Fed guidare un simposio tra i più difficili e che quest’anno ha il titolo di Structural Shifts in the Global Economy e a delineare la possibile strada per le banche centrali delle economie avanzate. Una strada su cui Pechino potrebbe avere un peso non indifferente. Lo stesso Joe Biden, due settimane fa, ha definito la Cina una bomba a orologeria. Certo, il sistema bancario e più in generale finanziario, americano è molto diverso da quello della Repubblica Popolare e lo stesso vale per quello europeo.
Ma è altrettanto vero che la Cina è la prima destinazione delle merci di molte aziende occidentali dell’auto, della moda, del lusso e dell’industria pesante. E che nonostante i recenti tentativi di diversificazione delle filiere, poi, il Paese è ancora la fabbrica del mondo e un suo arresto rischia di rallentare la produzione di gran parte delle aziende europee e statunitensi. A questo punto non resta che attendere le conclusioni di Jackson Hole. Nella speranza che anche Pechino faccia la sua parte per disinnescare la mina.
Ad oggi la Cina sta tentando di riconquistare la fiducia dei mercati che le hanno voltato le spalle e non certo da ieri. L’autorità di Borsa, per esempio, ha annunciato un pacchetto di misure volte a rendere più attraente l’investimento sulle società cinesi. Fra le iniziative figurano incentivi ai buyback, i riacquisti di azioni da parte delle aziende quotate che aiutano a sostenere i prezzi dei titoli in momenti difficili. Le piazze cinesi ne stanno certamente attraversando uno. La Borsa di Hong Kong ha perso oltre il 21% da inizio anno, muovendosi in direzione opposta rispetto alla crescita dei listini occidentali.